Intervista ad Alberto Grandi che da anni, con libri molto belli, sta decifrando l’origine del cibo (lottando contro l’ipotesi sovranista) e sta ricostruendo anche alcuni percorsi dimenticati di quei migranti che hanno portato e cambiato e migliorato il cibo. Il suo ultimo libro è Storia delle nostre paure alimentari. Come l’alimentazione ha modellato l’identità culturale, Aboca edizioni.
Perché il cibo genera molte paure?
La paura del cibo in natura esiste da sempre. Possiamo dire che la paura sia uno degli stati emotivi più importanti per la sopravvivenza delle specie viventi; un meccanismo di difesa che permette di valutare e prevenire i pericoli. Tale meccanismo, ovviamente, funziona anche per quanto riguarda l’alimentazione: la possibilità di assumere sostanze tossiche mentre si mangia è sempre molto concreta ed è quindi naturale che ogni essere vivente abbia sviluppato sistemi e processi automatici per valutare i potenziali pericoli insiti nell’atto di alimentarsi. Il pericolo è decisamente più elevato per l’uomo, in quanto animale onnivoro. Questa caratteristica costringe gli umani (e i ratti) a dedicare molto tempo e molte energie mentali per capire quali cibi si possono mangiare senza rischi. Vista, olfatto e in ultimo il gusto, sono i sensi che permettono di stabilire quanto un cibo possa essere innocuo o dannoso, ma è soprattutto la memoria il “senso” più importante, che permette a uomini e ratti, di incasellare ogni odore, sapore e colore in determinate categorie che vanno dall’innocuo (e magari gustoso) al velenoso mortale. Anche per questo una delle paure alimentari più diffuse, anzi quasi automatiche, era quella nei confronti dei cibi nuovi, che in quanto tali non potevano essere facilmente classificati nelle categorie preesistenti.
I cibi che oggi consideriamo vecchi sono stati un tempo nuovi e hanno generato parecchie paure. Ci fai qualche esempio?
Guarda, non è facile scegliere quale esempio farti, perché in pratica, da quando l’uomo si è trasformato da cacciatore ad agricoltore, circa 12.000 anni fa, i cereali sono diventati la base dell’alimentazione umana, ed è quindi abbastanza logico che le paure nei confronti di questo cibo e di queste coltivazioni siano sempre state molto elevate. Non solo, ma con il progredire della storia, si aggiunsero anche aspetti di carattere economico e sociale. Ad esempio, la distinzione tra mangiatori di pane e mangiatori di polenta, in sostanza tra cittadini e contadini. In un certo senso già questa differenziazione è figlia di un’atavica paura alimentare, perché la selezione dei cereali migliori e una lavorazione più raffinata erano le prime garanzie per coloro che non potevano controllarne la produzione e la trasformazione, vale a dire proprio i cittadini. Essendo così importanti dal punto di vista alimentare, economico e sociale, i cereali furono da sempre oggetto di grandi paure. Prima di tutto, quella di non averne abbastanza, in secondo luogo quella di non averne della qualità richiesta e infine, quella di essere costretti a mangiare cereali contaminati da qualche malattia o da qualche parassita e in quanto tali pericolosi per la salute umana. Da questo punto di vista il caso più clamoroso fu quello legato al consumo di segale cornuta, vale a dire intaccata dal parassita chiamato Claviceps Purpurea, che provoca l’ergotismo: per quasi cinquecento anni la saggezza popolare aveva individuato nella segale guasta la causa della malattia, ma i medici non riuscivano trovare un collegamento diretto tra il consumo di questo cereale e la diffusione della malattia. Qui per l’approfondimento https://agrifoglio.ilfoglio.it/gli-aneddoti/a-proposito-di-patogeni-naturali-del-tempo-che-fu/
Secondo l’immaginario italiano mangiamo da sempre pasta e pizza …ma non è così, vero? Se non ci fossero state le contaminazioni culturali forse la pasta e la pizza sarebbero rimaste curiosità alimentari.
Certo! Noi abbiamo un’idea completamente sbagliata per quanto riguarda l’evoluzione della cucina italiana, ma prima ancora del gusto italiano. La pasta e la pizza sono esempi perfetti: senza l’emigrazione in America di milioni d’italiani tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, queste specialità, che erano fortemente localizzate e decisamente poco gustose, non sarebbero diventati simboli della cucina nazionale. Sono stati gli italiani in America a trasformarli in piatti ricchi e in elementi identitari molto forti. La cucina, in fondo, è un sistema di comunicazione e in quanto tale mette in contatto tradizioni e mondi diversi; per tornare al tema del mio libro, contaminarsi è anche un modo per superare le paure e le diffidenze nei confronti dei cibi nuovi.