Giulia Corsini ha scritto un libro molto bello, Salvare gli animali. Il viaggio di una veterinaria per decifrare il mistero del rapporto uomo-animale. Il libro è un saggio personale, un memoir, un viaggio appunto, durante il quale si indaga sul complesso rapporto tra uomini e animali, ricco di sfumature e contraddizioni e di molte cattive interpretazioni.
Una curiosità, sei una veterinaria, come e perché hai intrapreso questo viaggio?
Il viaggio che ho intrapreso nasce dall’esigenza di identificare un principio comune nelle relazioni tra umani e altre specie animali. Che cosa significa realmente “salvare gli animali”? Si tratta forse di prolungare la loro esistenza a ogni costo, oppure di assicurare loro una vita dignitosa? È concepibile che la preservazione di una specie possa costituire una minaccia per un’altra? Su quali basi decidiamo quali animali meritino di essere salvati? Quali criteri distinguono un ratto fognario da uno impiegato a fini sperimentali? Da quali fattori sono influenzate queste decisioni?
Quindi un viaggio di iniziazione?
Il percorso di cui parlo non si limita a una dimensione puramente fisica; rappresenta piuttosto un viaggio interiore, un’indagine più estesa su cosa significhi essere umani. In ultima analisi, il rapporto con l’alterità — l’incontro e l’interazione con ciò che è diverso da noi, che sia un altro umano, un animale o anche l’ambiente che ci circonda — si rivela uno dei canali più profondi e significativi per la scoperta del sé. La relazione con l’altro costringe ad abbandonare la zona di comfort, a interrogarsi su convinzioni e pregiudizi, ad aprire la mente a nuove prospettive, offrendoci l’opportunità di crescere e di svilupparci come individui.
In tuo libro racconta proprio questa relazione, spesso così equivocata, tra umani e specie animali, ebbene, ma nella nostra storia c’è stato un momento in cui abbiamo cominciato a prendere sul serio il concetto di benessere animale?
l libro “Animal Machines” di Ruth Harrison (1964) ha rappresentato una svolta nella percezione pubblica del benessere animale, evidenziando per la prima volta le condizioni critiche degli animali negli allevamenti intensivi. Questa opera ha sollevato questioni morali e legislative precedentemente trascurate, catalizzando un cambiamento nella coscienza collettiva e inducendo il governo britannico a intraprendere azioni concrete. La commissione guidata da Roger Brambell ha gettato le basi per un nuovo approccio al benessere animale, delineando le “cinque libertà” fondamentali, che da allora sono diventate pilastri per lo sviluppo di normative a tutela degli animali in tutto il mondo.
Temo che nel dibattuto pubblico le cinque libertà fondamentali non siano entrate visto che un motivo di discussione è “l’allevamento intensivo”
Negli ultimi anni il settore degli allevamenti intensivi nell’Unione Europea ha subìto grandi trasformazioni a favore del benessere animale e dell’ambiente, ma non sono in molti a saperlo. Nell’UE l’industria avicola è stata la prima a recepire questi standard con la Direttiva ovaiole, che imponeva l’uso di gabbie arricchite per le galline.
In Italia?
In Italia, sono stati stabiliti dei criteri ulteriori di certificazione del benessere animale tramite il metodo CReNBA.
Cioè?
Si tratta di una sorta di check list elaborata dall’Istituto Zooprofilattico della Lombardia e dell’Emilia-Romagna, sede del Centro di Referenza Nazionale per il Benessere Animale (CReNBA), ora confluito nel sistema ClassyFarm. Quest’ultimo è un sistema di valutazione che valuta ulteriori aspetti oltre al benessere animale, come la biosicurezza, gli indicatori sanitari e produttivi, l’alimentazione e l’uso di farmaci. Naturalmente, il mio viaggio mi ha condotto presso un vasto allevamento intensivo di bovine da latte. L’intenzione dietro questa visita era quella di approfondire (e divulgare) gli aspetti meno noti di tale sistema produttivo.
Ora ci arriviamo subito, ma intanto ho una curiosità. Quando ormai quasi 40 anni fa feci l’esame di zootecnia e anatomia degli animali domestici, ad Agraria, Portici, a un certo punto, forse per lo stress o altro, dissi: la Mucca. IL professore per poco non mi bocciava, e cominciò una arringa contro Heidi che stava danneggiando seriamente il rapporto uomo animale, con questa tendenza ad antropomorfizzare tutto: vacche – gridava- si chiamano vacche. Pensi che ci sia questa tendenza, per cui i cani diventano figli ecc. e li trattiamo come figli, spesso non sapendo comunicare con loro?
È improbabile che Heidi sia direttamente responsabile, quanto piuttosto sembra riflettere la sensibilità del tempo.
Spiega…
L’antropomorfizzazione degli animali è un fenomeno collaterale dell’impressionante crescita della produzione alimentare. Questo aumento è stato reso possibile grazie alla meccanizzazione, all’impiego di fertilizzanti chimici, all’uso di prodotti fitosanitari, e all’introduzione degli allevamenti intensivi. Questi sviluppi hanno trasformato il tessuto socioeconomico, spostando la maggior parte della popolazione dalle campagne alle città. Di conseguenza, le persone non si sostentano più con l’agricoltura o l’allevamento, ma mediante la prestazione di servizi di vario tipo. Solo una piccola minoranza si occupa ora direttamente della produzione alimentare. Arrivando al punto, la maggior parte delle persone, dunque, è divenuta distante dalla terra e dai processi biologici, come la predazione, il parassitismo e la simbiosi e vive l’esperienza degli altri animali unicamente attraverso quelli da compagnia, considerati di fatto come membri della famiglia. Da qui l’antropomorfizzazione.
Ci sono conseguenze evidenti?
Questo cambiamento nel rapporto tra esseri gli umani e animali ha portato a una selezione crescente di animali da compagnia basata su caratteristiche neoteniche, ovvero quelle che evocano l’aspetto degli infanti umani, un fenomeno che l’etologo Konrad Lorenz aveva già osservato e descritto con il termine “Kindchenschema”. Queste caratteristiche suscitano un istinto primordiale di protezione, eppure, paradossalmente gli animali con caratteristiche neoteniche più spinte, per esempio individui delle cosiddette razze brachicefaliche (col muso schiacciato, come Carlini o Bulldog), soffrono di più perché non riescono a respirare.
A proposito di antropomorfizzazione, c’è un capitolo del tuo libro che si intitola lo zoo come specchio, cioè?
L’antropomorfizzazione, ovvero l’attribuzione di caratteristiche umane agli animali, può essere vista come una semplificazione narcisistica del rapporto tra uomo e animale, ma nella storia dell’umanità è un aspetto quasi marginale, a tal proposito gli zoo storici sono fondamentali la comprensione di questo rapporto.
Spiega.
Ermanno Bronzini, direttore del giardino zoologico di Roma nel dopoguerra, aveva ragione quando diceva che nelle collezioni di animali «l’uomo guarda sempre un po’ in fondo a sé stesso». Analizzando l’architettura degli zoo storici, emergono cicli ricorrenti architettonici che riflettono la trasformazione del pensiero e dell’approccio umano nei confronti degli animali.
Facciamo un riassunto di queste fasi?
Sì, negli zoo storici è dunque possibile distinguere varie fasi. Originariamente, i serragli rappresentavano degli zoo ante-litteram, in cui le collezioni di animali esotici rappresentavano la potenza e il dominio delle classi aristocratiche e dei monarchi seguito del declino della fine degli assolutismi, i serragli divennero primi centri naturalistici aperti al pubblico. La prima generazione dei giardini zoologici propriamente detti si distingueva per le strutture esotiche di stampo coloniale (qui ritorna l’idea delle collezioni di animali come manifestazione di potere e dominio). Questa fase fu poi succeduta da una nuova era influenzata dal visionario approccio di Carl Hagenbeck, che rivoluzionò il concetto di zoo, introducendo un design più naturale e immersivo “senza gabbie” verso fine Ottocento.
Poi?
La storia prosegue con la terza generazione, caratterizzata da un approccio modernista-igienista, seguita dalla quarta, emersa intorno agli anni ’60, che segnò un ritorno all’ideale di paesaggio, focalizzandosi sulla conservazione e sulle esigenze naturali degli animali. Oggi, siamo testimoni dell’alba di una nuova era che privilegia strutture imponenti e simboliche, climatizzate, volte a promuovere e valorizzare la biodiversità di aree geografiche specifiche attraverso strategie di branding e sensibilizzazione pubblica dove ritornano elementi promossi da Hagenbeck di fine Ottocento della percezione degli animali come se fossero in libertà.
Il capitolo parla anche dello zoo di Roma,
In questo viaggio all’interno dello zoo storico di Roma attraverso le sue varie fasi, mi accompagna Spartaco Gippoliti, membro del Gruppo di Specialisti dei Primati dell’IUCN SSC, un’organizzazione globale dedicata alla conservazione dei primati. Gippoliti lavora anche come consulente scientifico per vari zoo, ama osservare dal punto di vista etologico tutti i primati, compreso l’Homo sapiens, che si distingue per la sua peculiare tendenza a considerarsi un’entità speciale rispetto agli altri animali e rispetto al suo passato. Questa convinzione, tuttavia, si scontra con la propria natura prevedibile e la tendenza a ripetere gli stessi errori, frutto di una memoria storica molto limitata.
Senti, a proposito di primati, passiamo all’allevamento animale, tipico delle nostre specie. Affronti il tema dell’allevamento intensivo, tra l’altro uno degli aggettivi più usati. Ogni volta che qualcuno fa un servizio sull’agricoltura non manca mai di concentrare usando tutti i metodi narrativi possibili (spesso ricattatori) sull’allevamento intensivo.
In realtà, la pratica dell’allevamento non è caratteristica esclusiva dell’essere umano per due motivi principali. Da un lato, le società umane industrializzate rappresentano solo una fra le numerose evoluzioni possibili nell’ampio spettro della variabilità umana, che comprende anche lee comunità di cacciatori-raccoglitori (per esempio i Boscimani o i Pigmei in Africa, i Semang della Malesia e tanti altri). D’altro lato, l’esistenza di pratiche di allevamento si osserva anche nel regno animale, particolarmente in specie considerate come ingegneri degli ecosistemici (ovvero animali capaci di modificare l’ambiente in cui vivono, ne parlo nel libro), analogamente agli esseri umani.
Esempio?
Un esempio notevole è dato dalle formiche che allevano afidi, ottenendo da essi una secrezione zuccherina conosciuta come melata, in un processo che ricorda la mungitura. Le formiche del genere Melissotarsus, presenti in Africa e a Madagascar, allevano invece cocciniglie “da carne”.
Per quanto riguarda gli allevamenti intensivi?
Nel libro ci sono discussioni interessanti con il dr. Guglielmo Garagnani, imprenditore agricolo, che mi racconta delle rivoluzioni che hanno avuto gli allevamenti intensivi nell’Unione Europea (che la maggior parte delle persone non conosce) a seguito di regolamenti e direttive europee, che hanno portato in generale a miglioramenti dal punto di vista del welfare animale, riduzione dell’uso degli antibiotici e delle emissioni. Si parla anche della “clessidra” del mercato agroalimentare, ove ad una estremità abbiamo un miliardo e mezzo di agricoltori e dall’altro capo abbiamo i quasi otto miliardi della popolazione globale. Andando dai produttori ai consumatori, verso il collo stretto della clessidra abbiamo le aziende di trasformazione e la grande distribuzione alimentare organizzata, la GDO, dove pochissimi attori concentrano un potere finanziario gigantesco, governando i prezzi di acquisto dagli agricoltori e di vendita ai consumatori. Spesso la GDO quando descrive gli allevamenti, dipinge prati verdi e animali che pascolano in libertà, un’immagine che si allontana significativamente dalla realtà prevalente degli allevamenti odierni, così facendo, offre il fianco a chi è contro. Dall’altro lato, la GDO può esercitare una certa pressione economica sui produttori, costringendoli a assorbire il rincaro di produzione. Questo può portare a conseguenze indesiderate, come la riduzione dell’età degli animali mandati al macello per evitare i costi eccessivi di mantenimento, l’aumento della produzione per capo, o la chiusura di piccole stalle incapaci di sostenere i costi.
In questi anni di lavoro e di studio ti sei fatta un’idea della coscienza animale?
Si. Esistono varie definizioni di “coscienza”, con coscienza in questo caso intendiamo la capacità di percepire, ovvero ricevere uno stimolo esterno ed elaborarlo a livello centrale, nel cervello. Nel mio libro ci sono ben due capitoli nel laboratorio del prof. Giorgio Vallortigara, lui studia la mente degli animali. Partiamo da domande di natura filosofica, partendo dalle forme a priori kantiane, ovvero concetti di tempo, spazio, numero che regolano il processo cognitivo. Sicuramente l’approfondimento maggiore sul tema della coscienza è possibile trovarlo nel suo libro “Pensieri della mosca con la testa storta”, pubblicato da Adelphi nel 2021. Da Giorgio ho scoperto che pesci arcieri e zebrati, pulcini e addirittura api e bombi sono dotati della capacità di discriminare quantità numeriche e molte altre cose che credevamo essere solo capacità speciali dell’uomo. Ho scoperto che i meccanismi base del pensiero non richiedono un numero così alto di neuroni, e che nel ventaglio evolutivo del regno animale non ha neanche tanto senso parlare di “grado di sviluppo neurologico superiore o inferiore”, l’uomo non è neppure l’animale con il quoziente di encefalizzazione maggiore (è il rapporto tra le dimensioni del cervello e le dimensioni corporee).
Finiamo con una proiezione nel futuro, cosa pensi? La sensibilità animale aumenterà? Se sì, in quali paesi, gli animali allevati per le nostre esigenze spariranno? Diventeranno specie rare?
L’atteggiamento umano verso gli animali è influenzato da vari fattori, tra cui le circostanze e le modalità di interazione con gli animali stessi. L’incremento delle risorse alimentari nelle aree urbane attrae un numero crescente di specie animali nelle città, un fenomeno descritto in un capitolo dedicato all’urbanizzazione nel libro. Mentre per alcune specie le città rappresentano ‘trappole ecologiche”, altre stanno subendo un processo di speciazione proprio davanti ai nostri occhi, già le differenze significative tra i merli urbani e quelli di foresta, hanno portato all’isolamento riproduttivo, ovvero i merli tozzi di città non si riproducono con i merli longilinei e migratori di foresta. Io non sapevo mica che i merli originari fossero migratori!
Nelle città ci sono anche parecchi incontri ravvicinati non piacevoli…
Gli incontri ravvicinati con gli animali in alcune circostanze possono aumentare l’attaccamento e la sensibilità nei loro confronti: proprio ieri stavo guardando un documentario di un ex pescatore, che da quando ha cominciato a fare immersione si è affezionato a un pesce simile ad una spigola, che ha chiamato Elvis, e questo pesce lo segue come un cane.
Sì, non è certo un caso isolato…
In molte circostanze, tuttavia, gli incontri ravvicinati con alcuni animali possono aumentarne i conflitti. Ciò avviene quando il comportamento di una specie o individuo animale danneggia le persone che ci convivono. Alcuni esempi possono essere ratti di fogna, oppure i cinghiali di Roma, o i conflitti delle comunità marginali con i grandi predatori.
I conflitti possono intensificarsi anche a causa delle zoonosi (le malattie che si trasmettono dagli animali all’uomo) un altro fenomeno in crescita, connesso con il fenomeno della globalizzazione, ovvero l’aumento dei movimenti e degli scambi globale. Quindi no, la sensibilità nei confronti degli animali non aumenterà, al limite aumenterà per alcune specie in alcune condizioni e calerà nei confronti di altre.
E per la perdita di specie?
Attualmente, si registra la perdita di oltre il 90% delle varietà agricole e la scomparsa di quasi metà delle razze di animali domestici. Questo declino si attribuisce alla concentrazione della produzione agricola su poche colture essenziali – come mais, riso e grano – e su un numero limitato di razze appartenenti a sole cinque specie animali, in risposta alla crescente domanda energetica mondiale. Se varietà e razze sono andate perdute, le specie di animali e piante addomesticate hanno tratto un certo vantaggio dalla simbiosi con l’essere umano, diventando numericamente predominanti. La scoperta e l’adozione di metodi produttivi più efficienti potrebbero favorire ulteriormente queste specie oppure portare alla preferenza nei confronti di altre specie, ma credo sia difficile che scompaiano nel momento in cui si vuole preservare quelle comunità umane diverse dalla nostra, parlo delle comunità umane che persistono in modelli di vita basati sulla sussistenza. Esempi includono gli orticoltori delle Highlands in Papua Nuova Guinea, la cui esistenza è profondamente legata all’allevamento di suini oppure i Maasai in Kenya e Tanzania, e i Tutsi in Rwanda, Burundi che hanno tradizionalmente basato la loro economia sull’allevamento di bovini.
Penso, tuttavia, che al di là della nostra volontà, gli effetti indiretti della globalizzazione, quali le zoonosi e le panzoozie (cioè le epidemie degli animali) indirizzeranno le nostre forme di allevamento.
Tutto scorre…
Certo, alla fine tutto è destinato a scomparire, gli animali allevati per le nostre esigenze, io, te, e anche l’umanità intera. Cerchiamo di allungare il più possibile la nostra esistenza nelle migliori condizioni possibili.