Il dolce al cioccolato è per me l’unico dolce possibile, il migliore dei dolci possibili: e, per essere l’emblema del dolce, il cioccolato deve avere uno spirito contraddittorio, ovvero ricomprendere in sé quell’amaro del fondente che, se non ci fosse, lo appianerebbe e lo renderebbe non problematico, indistinguibile dalla stucchevole scipitezza di una caramella gommosa o di un krapfen industriale. Conseguenza logica di ciò è che il sapore della mia infanzia è (e non può non essere) quello di un dolce al cioccolato, preparato secondo una ricetta degli anni Trenta: la Bilbolbul, una torta al cioccolato coperta di zucchero a velo, chiamata come il protagonista di una serie a fumetti che non ho mai letto (la pubblicavano negli anni Dieci sul Corriere dei Piccoli), e che oggi solleverebbe non poche (e molto giustificate) polemiche sugli stereotipi razziali.
Sono certa che mia madre, oggi neanche sessantenne, possa aver pescato una ricetta così d’antan solo da qualche taccuino vergato in bella grafia dalla sua balia: lei si chiamava Anita, cuoca sopraffina sopravvissuta a due guerre, già ottuagenaria quando accudiva mamma e i miei zii – infatti, non ho potuto conoscerla se non tramite la memoria dei suoi gloriosi piatti, riproposti fedelmente ai pranzi del ramo materno della mia famiglia.Con gli occhi più grandi dello stomaco, già solo vedendola uscire dal forno divoravo la Bilbolbul, senza che mi scatenasse questione alcuna sulla resa dei conti col passato coloniale dell’Italia. Pensavo, anzi, che quel suo buffo nome, quasi una parola magica, fosse un nonsense d’invenzione di mia mamma. Molto ben congegnato, in ottica di marchio: perché per me nessun’altra torta al cioccolato, per quanto potesse assomigliarle, è mai stata e mai sarà la Bilbolbul.