Quando ero piccola non avevo fame. Il cibo rappresentava qualcosa di sospetto, da soppesare a lungo con la vista e l’olfatto, prima di introdurlo dentro di me. In parte è ancora così. Per supplire alla mia pressoché totale inappetenza, mia madre inventò allora alcune alternative liquide, nei confronti delle quali mostravo meno diffidenza. La prima era il latte, che mi dava da bere più volte al giorno, un po’ come si fa coi neonati. In effetti si più dire che il mio svezzamento sia terminato soltanto in età adulta. Poi in casa nostra, sebbene fossero solo i primi anni Ottanta, fece ingresso una centrifuga. Una volta acceso, il robottino emetteva un suono metallico e infernale che riecheggiava in ogni stanza, posso ancora risentirlo chiaramente, a distanza di anni. Probabilmente anche i nostri vicini lo ricordano, perché le lame interne dell’aggeggio roteavano all’impazzata e stridevano nell’eliminare la buccia dai pezzi di mela e di carota. Quando mia madre finalmente spegneva il macchinario, nella casa tornava il silenzio. Ancora annichilita dal rumore non osavo ribellarmi, fugando le sue paure che potessi morire di fame. Con una certa soddisfazione aggiungeva al beverone una spruzzata di limone e me lo porgeva. Io lo afferravo con entrambe le mani, e immergevo la faccia nel bicchiere sperando avesse messo più mela che carota, ma le quantità erano sempre in misura variabile. Intanto lei cominciava a smontare la centrifuga per ripulirne i singoli pezzi.