Lo status quo non ci piace, e ogni volta che possiamo lo diciamo a gran voce: c’è troppo di tutto, troppa poca qualità, e parecchio inquinamento. Difficile non prendere sul serio queste impressioni, testimoniano un disagio concreto dei cittadini.
Lavorare sullo status quo è un obbligo, ma richiede la capacità prima di ragionare sui dati e poi di costruire una teoria. È qualcosa che richiede anche praticità, perché ci impegna nella ricerca di soluzioni, e questo non solo regala senso alle nostre vite disordinate, ma ci costringe a collaborare con svariate persone, quindi nella sostanza a integrare i saperi.
L’integrazione dei saperi è quello che ci manca. La patologia dei saperi moderna è espressa da una delle più belle e meno ricordate canzone di Francesco Guccini, la canzone della bambina portoghese che in punto recita: “e poi, e poi, gente viene qui e ti dice/ Di saper già ogni legge delle cose/E tutti, sai, vantano un orgoglio cieco/Di verità fatte di formule vuote/E tutti, sai, ti san dire come fare/Quali leggi rispettare, quali regole osservare/Qual è il vero vero/E poi, e poi, tutti chiusi in tante celle/Fanno a chi parla più forte/Per non dir che stelle e morte fan paura”.
Siamo chiusi in tante celle (oggi si chiamano bolle), con pochi dubbi (la canzone è un inno al dubbio cartesiano) e giuriamo di sapere cosa è il vero. Di conseguenza, a parte i mancati dubbi sulle nostre opinioni, siamo portati a isolarci (a non confrontarci sui fatti e dati) e peggio: a chiuderci nel passato.
Nella dimensione agricola il richiamo al passato è fortissimo, tornare all’agricoltura rurale è un’opinione che capita di ascoltare spesso. Per agricoltura rurale, di volta in volta, e a seconda del contesto, si intende: abolizione dell’agricoltura industriale (qualsiasi cosa voglia dire) e quindi, di conseguenza abolizione dei concimi; abolizione degli agrofarmaci di sintesi; vari altri desideri.
A tutto questo aggiungiamo che non ci ricordiamo più cosa fosse davvero, e fino all’altro ieri, l’agricoltura rurale – chi scrive ha avuto parenti contadini che fino a metà degli anni ’70 avevano la stalla in camera da letto, dunque, ricordando bene quel clima, nonché le arrabbiature di mio padre per costringerli a ristrutturare l’azienda, a modernizzarla, è portato a prendere sul serio la questione: “ritorno all’agricoltura di una volta”.
Sarebbe interessante fare delle simulazioni: per esempio, visto lo stato dell’arte, cosa succederebbe se decidessimo di usare solo il letame per concimare i campi?
Sarebbe interessante ragionare sui risultati, e credo che concorderemmo sulla necessità di fare qualcosa di nuovo (usare nuove pratiche più efficienti) e nessuno di noi vorrebbe prendere più sul serio l’idea di tornare a spandere letame.
Forse siamo caduti in una classica trappola evolutiva, l’abbondanza ha i suoi benefici e i suoi costi, ma in pochi sarebbero disposti a rinunciare all’abbondanza, anche perché, chiusi in tante celle, pensiamo solo al nostro benessere, non al benessere di chi deve ancora arrivare (e usando la necessaria energia).
Guccini ha ragione: tutto questo per non dire che stelle e morte fan paura. Eppure, la canzone indica in questa paura la nostra capacità sia di riflettere davanti all’Oceano infinito sia di provare, collaborando, a costruire un’imbarcazione per affrontare e limitare le asperità della vita.