Pubblichiamo qui un estratto dal fondamentale e bellissimo libro di Luigi Cattivelli: Pane nostro. Grani antichi, farine e altre bugie, per gentile concessione dell’editore il Mulino.
“Cos’è la biodiversità? Alla base di ogni programma di miglioramento genetico c’è la «biodiversità». È una parola che ormai sta sulla bocca di tutti; ma cerchiamo di capire bene che cosa significa. In senso generale, indica l’insieme di tutte le forme viventi; quando però parliamo di agricoltura, il termine va applicato soltanto alla diversità che esiste all’interno delle specie coltivate. All’interno della biodiversità di una specie (ad esempio, quella del frumento) ricadono tutte le varietà, sia moderne sia antiche; le popolazioni locali diffuse fino ai primi anni del Novecento o ancora coltivate nelle zone dove l’agricoltura è meno intensiva; le forme selvatiche da cui le specie coltivate sono derivate; infine, altre specie diverse dalla specie coltivata che comunque possono essere incrociate con essa, ancorché attraverso tecniche che permettono di supportare incroci che in natura avverrebbero con estrema rarità. Nel corso del Novecento c’è stata una grande corsa a raccogliere la biodiversità delle specie coltivate per conservarla nelle banche del germoplasma: per quanto riguarda il frumento, si stima che ne esistano almeno 500.000 forme diverse, custodite in tutto il mondo, anche in Italia, dove ci sono varie banche (la più importante è quella del CNR di Bari, dove sono conservate circa 28.000 forme diverse di frumento). Biodiversità, tuttavia, non significa solo raccogliere e conservare: la biodiversità si può anche creare. Quando si fa un incrocio tra due varietà diverse, oppure quando si inducono mutazioni mediante trattamenti chimici o radiazioni, si ottengono piante con un nuovo profilo genetico, quindi nuova biodiversità. Ancora più interessante è la possibilità di ripercorrere la strada evolutiva che ha portato alla nascita del frumento tenero riproducendo l’incrocio tra il frumento duro (tetraploide) e la forma selvatica Aegilops tauscii (diploide). Il prodotto di questo incrocio è un frumento tenero (esaploide) chiamato «sintetico» per distinguerlo dal frumento tenero originatosi durante l’evoluzione. Fare frumenti sintetici è estremamente importante per accedere a una nuova dimensione della biodiversità.
Perché disporre di biodiversità è così importante per l’agricoltura? Innanzitutto, chiariamo subito che l’idea di utilizzare per la coltivazione le forme antiche, quelle selvatiche o una qualsiasi delle oltre 500.000 forme di frumento presenti nelle banche del germoplasma è semplicemente naïf, visto che le forme antiche di frumento non hanno la capacità produttiva né l’adattabilità all’ambiente dei frumenti moderni. Allora perché tutti i genetisti investono tanto tempo e risorse nella raccolta, nella conservazione e nella caratterizzazione delle varietà e delle popolazioni locali di frumento? La risposta è semplice: perché nella vasta biodiversità del frumento, e in generale di tutte le specie coltivate, si potrebbero trovare geni molto utili per le varietà moderne. Ad esempio, si potrebbero individuare nuove fonti di resistenza alle malattie che poi basterà trasferire mediante semplici incroci all’interno delle varietà coltivate.
Un esempio molto famoso di come viene usata la biodiversità per trovare geni utili: la comparsa in Uganda nel 1999 di pustole di ruggine nera, una delle malattie più devastanti del frumento, su una varietà nota per portare un importante gene di resistenza: era la prima evidenza di una nuova razza di ruggine, che fu chiamata Ug99 e che in breve tempo si diffuse in tutta la regione degli altipiani dell’Africa orientale. Ug99 aveva superato il più efficace e diffuso gene di resistenza alla ruggine nera. I primi studi indicavano che il 90% di tutte la varietà di grano coltivate nel mondo era suscettibile a questa nuova razza di ruggine: un pericolo potenzialmente devastante per la sicurezza alimentare mondiale. Per arginare la diffusione della malattia fu avviato uno screening di tutti i materiali disponibili, che fu condotto in una stazione sperimentale in Kenya, dove il patogeno era largamente diffuso. A seguito di questo lavoro, frutto di un’estesa collaborazione internazionale, furono identificati nuovi geni di resistenza attivi contro Ug99: questi furono poi trasferiti nelle varietà coltivate, e nel giro di 6-8 anni fu possibile ridimensionare il problema e portare sotto controllo la diffusione della ruggine nera. Oltre ai geni di resistenza ce ne sono molti altri che, per così dire, sono stati «dimenticati» nel corso della selezione empirica che ha caratterizzato la coltivazione del frumento sino a un secolo fa. Può sembrare strano, ma la selezione empirica, la stessa che ha portato alle tanto rinomate varietà antiche, oltre a non aver selezionato geni utili (come quelli per la resistenza ad alcune malattie e quelli per potenziare la produttività), in alcuni casi ha preferito geni non proprio «raccomandabili».
A proposito, il caso farro: recentemente è emerso un esempio curioso in questo senso. Come sappiamo, i farri selvatici sono la forma di frumento selvatico da cui l’uomo ha selezionato il farro coltivato, che a sua volta è il precursore del frumento duro. Molte varietà di frumento duro, sia moderne sia antiche, hanno la spiacevole caratteristica di accumulare cadmio nei semi quando vengono cresciute su terreni ricchi di quel metallo che è tossico per la salute e quindi, evidentemente, meno ce n’è meglio è. Prima che qualcuno si spaventi, preciso subito che i terreni italiani sono in linea di massima poverissimi di cadmio, e quindi il fatto che le varietà di frumento duro coltivate in Italia siano capaci di accumularne non significa che poi lo facciano. Infatti, se il cadmio nel terreno è assente, non vi può essere alcun accumulo. È tuttavia curioso osservare che mentre tutte le forme selvatiche di farro sono prive di questa poco gradita caratteristica, molte varietà coltivate invece ce l’hanno. Evidentemente, questo carattere è comparso come conseguenza di una mutazione successiva alla domesticazione, quindi nei farri coltivati o nelle popolazioni antiche di frumento duro (…)Adesso che conosciamo il gene responsabile di questa caratteristica, sarà semplice nei prossimi anni selezionare piante prive della capacità di accumulare cadmio. Questo è solo un esempio di come la selezione empirica fatta dall’uomo nell’antichità non abbia necessariamente selezionato sempre e soltanto i geni migliori. Lo studio della biodiversità consente di comprendere come avvenne quella selezione e di recuperare anche geni inopinatamente dimenticati”.