Da qualche settimana gira tra i media internazionali la notizia di uno studio pubblicato su Nature Ecology and Evolution, a firma di Michael Pardo e suoi colleghi (Colorado State University), che rivela, dopo decenni di osservazione, che gli elefanti si chiamano per nome.
L’articolo dell’Economist dedicato a questa bella news inizia così: “Il ruolo della scienza, suggerisce la storia, è quello di cancellare quel sorriso compiaciuto dal volto dell’umanità. Ha spostato la Terra dal centro dell’universo e l’ha ricollocata in un luogo remoto astronomico. Ha declassato l’Homo sapiens da apice della creazione di Dio a una specie qualsiasi plasmata dall’evoluzione darwiniana. E ha costantemente sgretolato l’unicità dell’intelligenza e delle capacità comunicative con cui molte persone distinguono la propria diversità dalle altre bestie”.
Questo studio è frutto di un lavoro lungo nel tempo, paziente e fondato sulla collaborazione di molti ricercatori e alla fine ha dimostrato che gli elefanti sono tra gli animali più intelligenti.
Il dott. Pardo infatti ha esaminato due gruppi di elefanti kenioti: quelli di Samburu, esaminati da Iain Douglas-Hamilton e dal suo team dal 1997, e quelli di Amboseli, dove l’esame è iniziato nel 1972 sotto la guida di Cynthia Moss.
I “nomi” con i quali gli elefanti si chiamerebbero, descritti nel documento, non sono palesemente distintivi come lo sono i nomi umani o i fischi dei delfini. Sono come nascosti nei dettagli dei brontolii a bassa frequenza che costituiscono una parte importante della comunicazione degli elefanti. Questi richiami rimbombanti, che possono causare vibrazioni del terreno a diversi chilometri di distanza, vengono utilizzati per tenersi in contatto con i membri del gruppo che sono fuori dalla vista. Vengono anche emessi quando gli individui salutano gli altri e sono regolarmente diretti dalle femmine verso i giovani nei gruppi matriarcali che sono i mattoni della società degli elefanti.
Utilizzando registrazioni storiche di Amboseli e alcune raccolte appositamente da Samburu, il dott. Pardo e i suoi colleghi hanno analizzato migliaia di tali “chiamate”, insieme a informazioni su chi le aveva effettuate e a chi erano apparentemente dirette. Le hanno poi sottoposte a un protocollo di apprendimento automatico che le ha masticate e ha tentato di identificare degli schemi.
Una cosa da stabilire era se, quando comunicava con un altro elefante, il chiamante imitasse il destinatario. Il software suggeriva che non era così. Era tuttavia chiaro che i richiami fossero specifici per i diversi destinatari. Ciò si manifestava in diversi modi. In primo luogo, per un dato chiamante, il destinatario poteva essere previsto dallo spettro sonoro del suo brontolio. In secondo luogo, i brontolii diretti da un particolare chiamante a un particolare destinatario erano più simili tra loro rispetto a quelli fatti da quel chiamante ad altri destinatari. In terzo luogo, i destinatari rispondevano in modo più forte alle riproduzioni dei richiami originariamente diretti a loro rispetto a quelli originariamente destinati a un altro animale.
Oltre a ciò, i brontolii diretti da diversi chiamanti verso lo stesso destinatario erano più simili tra loro che ad altre chiamate all’interno del set di dati, il che suggerisce che tutti usano lo stesso nome per un dato destinatario.
L’articolo dell’Economista conclude che “tutto ciò si aggiunge alla prova che l’intelligenza degli elefanti è effettivamente parallela a quella umana in molti modi, e rende il loro massacro da parte degli umani, che minaccia molte delle loro popolazioni, ancora più terrificante”.
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