Parlano Luigi Caricato, oleologo, Angela Ricci e Silvia Sabbadini, ricercatrici università di Ancona, Pierluigi Sassi, AD di Timac Agro Italia.
1 .Che cosa è un oliveto a bassa e alta intensità?
Risponde Luigi Caricato, oleologo, nonché scrittore e giornalista, ideatore e direttore dal 2012 a tutt’oggi, del più grande e autorevole happening al mondo dedicato ai condimenti: Olio Officina Festival
Tutto si basa sul numero di piante presenti in un oliveto. Da qui la bassa o alta densità di olivi presenti su un ettaro, ovvero su dieci mila metri quadrati di superficie. Intanto c’è da riconoscere un prima e un dopo.
Il prima comprende un periodo di tempo estremamente esteso, da quando l’olivo è stato domesticato fino, all’incirca, alla prima metà del 1800. È soprattutto a partire dalla seconda metà del XIX secolo che si può parlare di olivicoltura così come la si intende oggi, ma non basta. Perché anche una pianta si evolve e si adatta all’ambiente, di conseguenza cambiano pure i criteri di coltivazione. Tanto per farci un’idea, ai tempi di Cartagine, nell’ultimo secolo a. C., vi erano da 25 a 64 piante per ettaro, per una distanza tra gli alberi di circa 13 metri l’uno dall’altro. Nel periodo romano antico questa distanza si era via via ridotta, da 12 metri fino ad arrivare a 7,5 metri. In un oliveto potevano esserci anche 120, o addirittura 170 piante, in base ai sesti di impianto adottati. Ancora oggi gli oliveti vetusti conservano le enormi distanze degli alberi di un tempo, ma si tratta perlopiù di oliveti marginali e spesso anche mal curati. Negli ultimi decenni si è arrivati a un sistema più intensivo di coltivazione, adottando una distanza di 5 metri per 5, o di 6 x 6, per una presenza di circa 400 piante a ettaro. Ecco, da qui al super intensivo il passo è stato breve:in un ettaro ci vanno addirittura 1700 olivi.L’alta densità comporta una razionalizzazione della coltivazione. I vantaggi sono tanti. Intanto una maggiore efficienza produttiva e qualitativa è garantita. Tutto ciò ha portato a un miglioramento genetico delle piante. Ora sono tutte a bassa vigoria, meno vegetazione fogliare e più frutto. Il conseguimento di tecniche colturali più sostenibili è un’altra conseguenza. Senza trascurare il fatto che un’alta meccanizzazione comporta da un lato una sensibile riduzione dei costi, dall’altro un’assenza di rischi, azzerando del tutto gli incidenti mortali e le gravi infermità che ogni anno vedono vittime tanti operatori ancora oggi. Si può rifiutare il progresso?
Ma le nuove biotecnologie (NBTs)? Un po’ di esempi?
Rispondono Angela Ricci e Silvia Sabbadini, ricercatrici, Università di Ancona.
Da un po’ di anni ci siamo focalizzati sull’indurre resistenze a diversi tipi di patogeni in queste tre specie, sfruttando le tecniche NBTs, in particolare quella dell’RNA interferente (RNAi). Tentiamo di offrire un’alternativa al massiccio uso di agrofarmaci. Nella sostanza l’RNAi viene attivato da molecole di RNA a doppio filamento (dsRNA), e negli ultimi anni alcuni gruppi di ricerca in varie parti del mondo hanno dimostrato che anche la sola applicazione esogena di queste molecole sulla pianta può indurre una difesa contro diversi tipi di patogeni (funghi, virus e insetti), in modo sequenza specifico: si tratta di una tecnica rivoluzionaria, la chiamano SIGS (Spray-induced gene silencing), ora ci sono moltissimi studi a riguardo, soprattutto per prolungare la durata dell’effetto di resistenza indotto da queste molecole, che di per se si degradano molto facilmente nell’ambiente, è quindi necessario sviluppare dei formulati appropriati. Siccome ci sono circa 1400 virus diversi in grado di attaccare specie selvatiche e specie coltivate: uno di questi è il virus della Sharka, responsabile della cosiddetta Vaiolatura delle Drupacee così definita a causa delle caratteristiche maculature presenti sulla superficie dei frutti infetti: di fatto sono invendibili ed immangiabili. All’Università di Ancona, stiamo proprio cercando di indurre resistenza genetica a Sharka in pesco sfruttando appunto le NBTs. Così come si può lavorare sulla resistenza ai patogeni di diverse specie da frutto, in altri laboratori si sta lavorando all’introduzione in pianta di altri tipi di “resistenze” quali ad esempio la resistenza a determinati stress di tipo ambientale (ad esempio tolleranza alla siccità e al freddo), caratteristiche fondamentali per proteggere le colture da repentini mutamenti climatici e/o per estenderle a terre “marginali” attualmente non in uso.
3. Ma i fertilizzanti come sono fatti? Da dove vengono? Che problemi ci sono?
Risponde Pierluigi Sassi, AD di Timac Agro Italia.
I fertilizzanti si presentano in differenti forme fisiche per rispondere alle diverse esigenze in termini di modalità applicative. Nella maggior parte sono sotto forma di granuli o scaglie per applicazione su tutto il terreno o solo in prossimità delle radici, oppure liquidi o polveri per essere miscelati in acqua ed applicati con l’irrigazione.Di base, per fosforo e potassio, le fonti usate per i fertilizzanti sono materie prime minerali presenti in natura sotto diverse forme, e in diverse zone del pianeta. Per questi due elementi nutritivi, fosforo e potassio, le difficoltà riguardano da una parte le tematiche di estrazione mineraria e dall’altra quelle della trasformazione dei minerali in elementi nutritivi. Attraverso la tecnologia di trasformazione industriale si possono ottenere elementi nutritivi fosfatici o potassici più o meno evoluti, più o meno efficienti.Per quanto riguarda l’azoto la questione è molto diversa. L’elemento azoto costituisce oltre i tre quarti dell’aria che respiriamo. Una quota significativa dell’azoto usato per i fertilizzanti è ottenuto tramite processi industriali che trasformano l’azoto presente nell’aria in ammoniaca e successivamente in altre forme azotate solide. In questo caso parliamo di processi industriali della chimica di base, molto prossimi alla trasformazione degli idrocarburi. Inoltre, per alcuni fertilizzanti viene usato anche il così detto azoto organico. Una forma di azoto presente nelle sostanze organiche che, opportunamente trattata, a contatto con il terreno, si trasforma in azoto assimilabile per le piante. Il rapporto tra la quantità di elementi nutritivi che vengono assimilati dalle piante e quelle di fertilizzante messo nel terreno può rappresentare l’efficacia della fertilizzazione. Il fosforo, per esempio, è fondamentale per lo sviluppo delle piante già dalle prime fasi e spesso è proprio la carenza di fosforo un fattore limitante per la crescita. Questo è dovuto al fatto che il fosforo, così come lo si trova normalmente in natura, non è assimilabile dalle piante. E’ per questo che la concimazione fosfatica è particolarmente importante. Solo che questa forma di fosforo è fortemente instabile al punto che, quando viene a contato con il suolo, più del 70 per cento ritorna nella forma originaria in pochissimo tempo, pochi minuti, e solamente meno del 30 percento rimane disponibile per le piante. Per rendere più stabile il fosforo, alla Timac, abbiamo brevettato, il Top Phos: i molteplici studi scientifici e tutte le prove in campo hanno dimostrato che oltre il 90% del Top Phos viene assimilato dalle piante. Questo cambiamento epocale nell’efficienza del fosforo che il Top Phos ha portato non solo consente miglioramenti agronomici rilevanti ma offre anche, evidentemente, grandi benefici in termini di sostenibilità. Per quanto riguarda gli azotati il tema è molto complesso ed è uno dei più trattati dai ricercatori di tutto il mondo che si occupano di nutrizione vegetale. Oltre a trasformarsi nelle sue tre diverse forme nel terreno non tutte ugualmente assimilabili dalle piante, l’Azoto presenta notevoli perdite per volatilizzazione e lisciviazione.Le nostre tecnologie produttive, anche queste tutte brevettate, lavorano sulla costruzione di membrane di protezione dell’azoto in modo da avere un rilascio progressivo nel tempo oltre ad una trasformazione controllata delle tre forme azotate in modo da presentare alla pianta i giusti quantitativi di azoto nel giusto mix di forme durante tutto il periodo di fabbisogno che si vuole coprire, ottimizzando così l’efficienza della concimazione azotata e riducendo al massimo le perdite nell’ambiente. Stessa cosa per il potassio.