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Home L'intervista

Ci vuole un olivo per il terzo millennio! Intervista all’oleologo Luigi Caricato.

da Redazione
21/09/2021
in L'intervista
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Andiamo direttamente al punto: ci sono problemi con la nostra olivicoltura?

Diciamo che l’ultimo scatto di orgoglio si è avuto subito dopo il secondo dopoguerra, poi si è assistito a una lenta decadenza, finora inarrestabile: alto tasso di abbandono degli oliveti, il fallimento sul piano economico perché non si è accettata l’idea di innovare, il rifiuto ostinato della modernità nel contrapporre una olivicoltura vetusta ritenuta inviolabile a una olivicoltura moderna e razionale, con oliveti ad alta densità e pertanto più efficienti ed economicamente sostenibili, ci consegnano un’Italia che non riconosce il significato e la portata di una parola così ricca di prospettive qual è “potenzialità”. 

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Ci puoi spiegare quali sono le forme di allevamento dell’olivo?

Ci sono oliveti a bassa e alta intensità, dipende dal numero di piante presenti su un ettaro. Tanto per farci un’idea, ai tempi di Cartagine, nell’ultimo secolo a. C., vi erano da 25 a 64 piante per ettaro, per una distanza tra gli alberi di circa 13 metri l’uno dall’altro.Nel periodo romano antico questa distanza si era via via ridotta, da 12 metri fino ad arrivare a 7,5 metri. In un oliveto potevano esserci anche 120, o addirittura 170 piante, in base ai sesti di impianto adottati. Ancora oggi gli oliveti vetusti conservano le enormi distanze degli alberi di un tempo, ma si tratta perlopiù di oliveti marginali e spesso anche mal curati.Negli ultimi decenni si è arrivati a un sistema più intensivo di coltivazione, adottando una distanza di 5 metri per 5, o di 6 x 6, per una presenza di circa 400 piante a ettaro. Ecco, da qui al super intensivo il passo è stato breve: in un ettaro ci vanno addirittura 1700 olivi.

Ok, che differenze ci sono tra i vari modelli?

L’alta densità comporta una razionalizzazione della coltivazione. I vantaggi sono tanti. Intanto una maggiore efficienza produttiva e qualitativa è garantita. Tutto ciò ha portato a un miglioramento genetico delle piante e il conseguimento di tecniche colturali più sostenibili è un’altra conseguenza. Senza trascurare il fatto che un’alta meccanizzazione comporta da un lato una sensibile riduzione dei costi, dall’altro un’assenza di rischi, azzerando del tutto gli incidenti mortali e le gravi infermità che ogni anno vedono vittime tanti operatori ancora oggi.  Ciò detto non sono un paladino dell’alta densità in contrasto con l’olivicoltura tradizionale, ma ritengo che si debba adottare volta per volta, per ciascun contesto produttivo, il modello più adeguato e razionale, lasciando da parte gli atteggiamenti ideologici che negano e impediscono di accogliere il progresso scientifico. Dunque, nei luoghi in cui vi è una olivicoltura collinare o d’alta quota, fondamentale per la manutenzione di un territorio altrimenti incoltivabile, si adottano i sistemi più confacenti, ma là dove è possibile un’alta densità occorre fare la propria parte. Non è accettabile la pretestuosa contrapposizione tra bassa e alta densità. 

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