Riepilogando: i rizobi passano un periodo della loro esistenza nelle cellule vegetali, sono dunque degli ospiti stagionali, che arricchiscono lo spettro delle potenzialità vegetali. In questa associazione simbiotica entrambi i partner ne traggono un evidente vantaggio.
Ma perché la pianta attiva la simbiosi con i batteri azoto fissatori? Che vantaggio ne trae?
Il suo interesse si percepisce dopo circa una settimana dall’ingresso dei primi batteri. Le cellule vegetali del nodulo, quelle più basali, ossia più prossime alla radice e più distanti dal meristema in crescita, hanno terminato le loro divisioni al pari dei batteroidi che ora invadono l’intero citoplasma. A questo punto i batteroidi iniziano a scindere il triplo legame della molecola di azoto per generare ammoniaca o amminoacidi, mediante il complesso multi-enzimatico della nitrogenasi. Un processo energeticamente molto costoso che può avvenire grazie all’utilizzo del fotosintato (il complesso di sostanze ottenute con la fotosintesi). Un processo che solo i batteri sanno fare e pochissimi altri organismi (cianobatteri, archea, alcuni batteri associativi e endofiti, forse alcuni funghi): quasi sempre in associazione con organismi fotosintetici per avere abbastanza energia chimica.
Terminato il loro compito, i batteroidi muoiono assieme alla loro cellula ospite. Qualche batterio non terminalmente differenziato riesce a sopravvivere e può riprendere a vivere nel suolo. Soprattutto i batteri del genere rizobio che non sono entrati nella cellula beneficiano dei prodotti di scarto della pianta e vengono nutriti all’esterno della pianta dagli essudati radicali che derivano indirettamente dall’azione dei batteroidi che hanno fissato l’azoto atmosferico. I batteri nella rizosfera aumentano di uno o due ordini di grandezza rispetto a quelli che non si trovano nei paraggi della pianta colonizzata.
Il processo di fissazione dell’azoto non riguarda solo l’azione dei plastidi (per procurare il fotosintato), ma anche l’ossigeno e i mitocondri.
Difatti l’ossigeno da un parte intossica il complesso multi-enzimatico della nitrogenasi che rompe il triplo legame della molecola di azoto: insomma, blocca la nitrogenasi e spegne l’espressione dei relativi geni che codificano per gli enzimi.
Ma da un altro punto di vista, se non arriva aria al nodulo, non può arrivare nemmeno azoto molecolare. Così le leguminose hanno elaborato dei filtri meccanici (con una barriera di amido) ed enzimatici per far passare quasi solo azoto e alimentare il processo di azotofissazione.
Il filtro enzimatico è un unicum nel regno vegetale: la leghemoglobina. La leghemoglobina chela l’ossigeno, ma ne cede una piccola frazione ai mitocondri per respirare. I mitocondri si portano sul bordo esterno del citoplasma per rubare un po’ di ossigeno alla leghemoglobina ed usare tutto il potenziale chimico-energetico della fosforilazione ossidativa.
Quindi tre procarioti sono essenziali per convertire energia luminosa in amminoacidi dentro le cellule vegetali
Roberto Defez ricorda che il suo maestro e mentore Pablo Amati descriveva i rizomi con un neologismo che nessuno ha mai usato: degli azotoplasti. Con questo non volendo intendere dei nuovi plastidi, ma degli organelli cellulari transienti e specializzati.
La domanda che Roberto Defez si pone dal 1980 è la seguente: come mai questi azoplasti non sono (ancora) diventati degli ospiti permanenti? Siamo o non siamo nel corso di una fase evolutiva che porterà un giorno ad avere azotoplasti, come un nuovo organello citoplasmatico ospitato in tutte le cellule dell’organismo e attivabile in condizioni di carenza d’azoto e disponibilità di nutrienti? Questo eviterebbe di dover combinare ogni volta il matrimonio tra la pianta giusta ed il suo rizobio più adeguato ed aiuterebbe, per esempio, le leguminose nel ruolo di piante pioniere di zone marginali e particolarmente inospitali.
Siccome la natura è un ippopotamo bisogna ancora maneggiare con i fili per poter ottenere una risposta adeguata al problema.