Cominciamo dal colore delle piante: verde. La caratteristica più appariscente che ci fa dire che quella che osserviamo è una pianta è il classico colore verde. Le piante, tranne qualche rara eccezione, si caratterizzano per avere la capacità di catturare e organicare il carbonio dalla CO2 dell’aria, con un processo che accade all’interno di particolari strutture da cui origina il tipico colore verde: i cloroplasti. Dalla conversione dell’energia solare in energia chimica si formano gli zuccheri e contemporaneamente viene rilasciato ossigeno. Gli zuccheri prodotti sono la principale fonte di energia per la pianta, e a valle per tutti gli altri organismi (microbici, vegetali ed animali).
Passiamo poi a cloroplasti e ai mitocondri: Le reazioni che usano il fotosintato (il complesso di sostanze ottenute con la fotosintesi) devono essere compatibili con la sopravvivenza cellulare e accadono in un diverso comparto presente nelle cellule vegetali (e non solo): i mitocondri. I cloroplasti e i mitocondri sono le principali centrali energetiche della cellula vegetale e quindi delle piante.
Da dove vengono i cloroplasti e i mitocondri? Nel loro DNA ci sono segni di una chiara origine procariotica. Anche per questi due organelli si pone l’interrogativo o il paradosso dell’uovo e della gallina: potremmo davvero immaginare una pianta senza mitocondri e cloroplasti. Sarebbe una pianta? Forse no, non riusciremmo a definirla pianta. E poi se non ci fossero stati i cloroplasti a emettere ossigeno per organicare carbonio, sarebbe mai nata una forma di vita simile a quella che conosciamo oggi sul pianeta Terra? (vedi anche https://agrifoglio.ilfoglio.it/come-funziona/di-quanto-ossigeno-abbiamo-bisogno-per-accendere-un-falo-sotto-la-luna/)
Quanto tempo fa sono nati i primi organismi fotosintetici? Probabilmente 2,7 miliardi di anni orsono, e tra 2,4 e 2,2 miliardi di anni fa si è assistito al primo grande evento di ossidazione del pianeta Terra. In quel periodo la concentrazione dell’ossigeno è salita da una parte per milione fino a valori tra lo 0,06% e il 2%.
La concentrazione è tutto. A un livello di concentrazioni di 0,2% di ossigeno si possono sviluppare solo organismi unicellulari ed estremamente semplici, ma serve almeno raggiungere il 2% di ossigeno per accedere a organismi pluricellulari estremamente semplici (circa un millimetro di taglia) con una vascolarizzazione. Già un mammifero da 3 cm richiede una pressione parziale di ossigeno del 12%, e per raggiungere simili livelli si è dovuta attendere una nuova rivoluzione planetaria. Tra 750 e 520 milioni di anni fa vi è stato un nuovo innalzamento significativo della pressione parziale di ossigeno che ha raggiunto (con enormi fluttuazioni) i livelli attuali del 21% di ossigeno in atmosfera. Questa transizione ha permesso il passaggio da un metabolismo anaerobico ad uno aerobico, con un evidente aumento dell’efficienza e della produzione di energia, consentendo così lo sviluppo di forme di vita più articolate e complesse, ad esempio quelle che prevedono un articolato centro nervoso di coordinamento delle attività dell’organismo.
Ci vuole ossigeno sì, ma non troppo: Sopra il 35% di ossigeno non ci può essere più vegetazione sul pianeta: non ci siamo mai arrivati per fortuna. Ma soprattutto appare molto significativa la linea continua, al 18% di concentrazione dell’ossigeno, che identifica la concentrazione a cui si può avere la combustione. Più volte, nel corso della storia recente del pianeta, la disponibilità di ossigeno è scesa sotto la soglia limite del 18% a cui si può innescare la combustione del carbonio. Una volta iniziata una combustione, questa può sopravvivere anche se la disponibilità dell’ossigeno scende fino al 16% circa. Ciò vorrebbe dire che per milioni di anni le foreste hanno proliferato sul pianeta senza che ci potessero essere incendi a devastarle o contenerle.
Questa epoca sembra coincidere in buona parte con la vita dei dinosauri sul pianeta. Se davvero si sono diffuse ampie foreste, queste hanno portato a una maggior produzione di ossigeno che ha infine superato la soglia limite del 18%, consentendo così la possibilità di innescare la combustione. Gli incendi hanno in parte limitato le foreste, ma anche i dinosauri hanno dato un buon contributo, fino a giungere agli equilibri attuali con una percentuale di ossigeno in atmosfera del 21%.
Quando l’ossigeno si è stabilizzato, quindi anche grazie ai cloroplasti, si passa all’ azoto. Una volta che idrogeno, ossigeno e carbonio (H, O e C) hanno iniziato a trovare un compromesso e un equilibrio, la competizione si è rivolta al prossimo elemento più necessario ed ambito per la vita sulla Terra: l’azoto (N).
Di azoto ce ne è sempre stata grande disponibilità. Oggi la nostra atmosfera è composta quasi per l’80% da azoto. Al contrario di altri gas, due atomi di azoto accoppiati tra loro si tengono stretti in un abbraccio intimo, stabile e poco pericoloso per la vita come la vediamo oggi. Un legame così solido da dover attendere le scariche elettriche dei fulmini durante i temporali perché i due atomi coniugati si separino. A quel punto una volta separati, gli atomi di azoto formano molecole energeticamente molto cariche, in realtà si definiscono ridotte, quali l’ammoniaca, NH3. L’NH3 si riduce ancora ad ammonio NH4+ e quindi si ossida sempre più, fino a diventare nitriti (NO2-) e nitrati (NO3-), energeticamente con sempre meno potenziale. Infine, le coppie agognate si ritrovano in una nuova molecola N2 e servirà ancora tantissima energia per scindere il triplo legame che tiene accoppiati due atomi di azoto. Le piante sono apparse molto prima degli animali sul pianeta e hanno vissuto e convissuto molto più a lungo degli animali con la carenza di azoto, necessario per fare acidi nucleici, proteine e tantissimi metaboliti indispensabili per la sopravvivenza loro e di tutti gli organismi
Come hanno fatto alcune piante ad affrontare la carena di azoto? Per affrontare la carenza di azoto, alcune piante si sono “tassate” fino a investire tantissime energie in un processo molto speciale: la simbiosi azotofissativa con batteri del genere rhizobium. La classe tassonomica delle Rhizobiaceae è molto complessa e in continuo aggiornamento, in funzione degli avanzamenti delle conoscenze genomiche.
In estrema sintesi, questi batteri del suolo hanno due fasi vitali: una come batteri liberi nel suolo che si riproducono molto lentamente, forse una volta al giorno in funzione dei nutrienti che trovano nel terreno, della temperatura e della competizione con altri microrganismi. Poi per pochissimi privilegiati può accadere un evento straordinario, ossia incontrare i peli radicali di una particolare pianta leguminosa, quella specifica e particolare con cui si possono associare, non una qualunque leguminosa. Un singolo batterio, se ha trovato la giusta leguminosa, può così invertire la direzione di crescita della membrana cellulare di un pelo radicale che invece di continuare a crescere verso l’esterno, distalmente rispetto alla radice, inizia a invaginarsi su sé stesso avvolgendo il fortunato batterio che ha incontrato. Questo batterio viene nutrito e protetto dalla pianta tramite il pelo radicale e si comincia a dividere ad un ritmo forsennato: Quindi i batteri dialogano con la pianta e la pianta risponde agli stimoli alimentando i batteri e mettendo loro a disposizione una struttura macroscopica, i noduli radicali, che avrà una sezione simile a quella della radice da cui si sono differenziati. Nel dialogo i batteri si prendono gli zuccheri e rilasciano alla pianta azoto.
Ma non solo di azoto si tratta, il dialogo va oltre: Sarebbe molto riduttivo pensare che i rizobi servano alla pianta solo per fissare azoto atmosferico e cederlo sotto forma di ammonio o amminoacidi. I rizobi sono parte del microbioma che aiuta qualunque organismo complesso a vivere. Così come è oramai chiaro quanto il microbioma che ospitiamo nel nostro apparato digerente non serve solo alla digestione o a fornirci vitamine, ma serve per le nostre funzioni superiori, ha un ruolo nei fenomeni neurologici, del comportamento e nell’autismo. Altrettanto la flora microbica che interagisce con le piante sostiene i vegetali in tantissime funzioni, ampliando le potenzialità del genoma vegetale con una miriade di sostegni più o meno occasionali o transienti. Soltanto i semplici batteri del genere Rhizobium aiutano la pianta ad attenuare la carenza di nutrienti (per es. fosfato) e a fronteggiare gli stress sia biotici che abiotici: alta salinità dei suoli, elevate temperature, aggressioni fungine, etc.
Si può fare? Una volta identificati i batteri associati alle leguminose, possiamo riprodurli e spingerli ad associarli ad altre piante? Il problema è che se si sequenzia l’intero microbiota associato ad una pianta si otterrà un microbioma estremamente ricco e variegato. Ma se poi si prova a farli riprodurre in laboratorio per poterli identificare e studiare e casomai inocularli in una nuova associazione con una pianta, i problemi diventano molto più complessi. I microrganismi coltivabili, quelli che formano colonie su piastre di terreno solido nutritivo, sono una esigua frazione e la complessità scende di quasi due ordini di grandezza. Circa il 5% dei microrganismi identificati per sequenza nucleotidica “a tappeto”, risultano poi coltivabili in condizioni di laboratorio. Il numero di CFU da un microbiota selvatico risulta essere assai limitato.
I cereali possono essere una soluzione, però…: I cereali attraggono una vasta flora microbica, ma nel processo di domesticazione, nei processi di colonizzazione di nuove aree con dei climi e dei suoli profondamente diversi da quelli originari, nell’adattamento delle “crops” alle esigenze produttive e quindi esposte a abbondanti fertilizzanti (N+P+K) a trattamenti dei suoli, irrigazioni e trattamenti con agrofarmaci, alcune delle “dotazioni” microbiche sono andate perdute. Esiste però una misconosciuta biodiversità microbica che potrebbe essere recuperata, valutata e casomai utilizzata per ridurre gli apporti nutrizionali e proteggere meglio alcune coltivazioni.
Come si può procedere? Uno dei possibili approcci è quello di isolare da suoli di terreni marginali una nuova flora microbica che possa sostenere ed arricchire la crescita delle crops nostrane. In questa ottica abbiamo prelevato suoli e piantine di riso africano della varietà di Oryza glaberrima coltivate nel Mali, sui bordi del fiume Niger. Questa varietà di riso è lontana parente della nostra Oryza sativa, quella che abbiamo adattato a crescere nei climi temperati di Lombardia e Piemonte, su terreni allagati che gelano in inverno. Abbiamo prelevato biodiversità microbica da un’area tropicale, semi-desertica, esposta a temperature estreme, con scarsissima o nulla fertilizzazione dei suoli e con microrganismi abituati a collaborare con delle piante di un riso (glaberrima appunto) che produce 6-7 volte meno del nostro riso da risotto. Abbiamo mostrato che i microrganismi endofiti di origine africana sono in grado di colonizzare non solo piante dei nostri risi commerciali di climi temperati, ma anche piante di frumento tenero e duro, fissano azoto, rilasciano fitormoni e sostengono la crescita vegetale in condizioni controllate.
Proviamo con l’AI? Ma per poter attingere a questo immenso bacino di biodiversità microbica dei suoli presenti in tutti i continenti, in diverse condizioni (suoli degradati, inquinati da vari scarti di lavorazione industriale, salini, esposti a temperature estreme, etc.) sarà necessario compiere un salto tecnologico e strategico. Dal solo sequenziamento del DNA microbico non sarà possibile accedere ad un panorama sufficientemente vasto, analitico e articolato. Non si tratta qui di passare da una visione in due dimensioni (Rhizobio-leguminosa) ad una visione in tre o quattro dimensioni, ossia passando dal suono di un duo ad un quartetto di musica da camera, con attori che producono una moltitudine di molecole utili: fitormoni, azoto, fosforo, molecole anti-ossidanti, alo-tolleranti e così via. Si tratta di avere un vero approccio olistico ai suoli, si tratta di assemblare una gigantesca orchestra, dove trovano spazio tutti gli strumenti esistenti ed esistiti, con numerosi cori di tante tonalità diverse e che includa tantissimi attori e le interazioni tra tutti questi attori. Non c’era, ad esempio, qui la possibilità di descrivere anche quella parte di microbiologia del suolo che è stata omessa, ossia il complesso ed affascinante mondo dei funghi che popolano i suoli con aspetti virtuosi (Trichoderma), benefici (Michorrizae), patogeni per le piante (oidio, peronospora, Magnaporthe, etc) o produttori di antibiotici e quindi antibatterici (quasi tutti). Ma un terreno coltivato vede quantomeno in azione almeno tutti questi componenti più tanti altri ancora. Il salto qualitativo indispensabile sarà quello, già intrapreso, dell’utilizzo dell’AI, l’intelligenza artificiale nelle sue varie versioni a partire dal machine learning.
E cioè? E cioè è necessario studiare le caratteristiche dei batteri coltivabili per comprendere come studiare i microrganismi non coltivabili. Un approccio che caratterizzi anche a livello proteico e metabolomico cosa è possibile far produrre ad ogni singolo ceppo, quale siano le relative compatibilità o forme di coesistenza, cosa consente ad alcuni ceppi di colonizzare le diverse specie vegetali e quindi le specificità d’ospite, e via discorrendo in un pathway che vede coinvolti non solo centinaia di attori, ma soprattutto le interazioni relative tra tutti questi attori e le singole cultivar. Un vasto programma, si direbbe citando un noto generale francese che però lo usava anche in senso ironico per dire che era un programma impossibile da realizzare: qualche indizio invece ora sembra suggerirci che accumulando saperi e conoscenze, ci si possa ora incamminare su un percorso che potrebbe davvero aprirci le porte all’agricoltura e forse alla medicina del terzo millennio.
Lo studio, in versione estesa uscirà sul numero 8 della Rivista dell’Accademia Nazionale dell’Agricoltura di Bologna. Ringraziamo la rivista, insieme a Roberto Defez per la concessione.