Il ciambellone. Classico, soffice, alto, con i granelli di zucchero sopra a formare una crosticina spessa. Non riesco ad associare nessun altro cibo al mio passato, e non perché me lo facesse una persona in particolare – mamma o nonna cambiava poco, tranne che col tempo mamma ha smesso di farlo perché odia cucinare, e insomma fino a diciott’anni m’ha fatto un favore – ma perché è stata l’unica merenda possibile per anni, almeno venti dei miei trentaquattro. Che fosse estate o inverno, poco importava. Il forno s’accendeva comunque e il ciambellone si affettava ancora caldo – “non mangiarlo subito, però, ché poi ti fa male”; sì, come no (mai una volta che abbia dato di stomaco). Comunque, associo il ciambellone anche a una marea di menzogne, che mi raccontavano per farmene mangiare di meno – ma allora non farmelo proprio, no? –, del tipo: “mangialo solo a colazione così non ingrassa” (sono sempre stata abbondante, e non è mai stata solo colpa del ciambellone); “non metterci la Nutella in mezzo sennò non riesci a ingoiarlo” (l’ho sempre mandato giù benissimo); “con le gocce di cioccolato diventa molliccio, non ce le mettiamo” (ma quando mai?); “se lo bagni nel caffellatte pesa di più, così ne mangi una fetta sola e ti riempie subito” (falsissimo). Il ciambellone è la mia personale madeleine della bugia, un sapore antico a cui non potrei rinunciare neanche oggi che nessuno me lo prepara più, sebbene le menzogne per farmi mangiare di meno continuino a raccontarmele tutti quanti. Senza successo.