L’olivo è una pianta sentimentale, allieta i sensi e infatti suona, illumina e lenisce.
Suona benissimo per via del tronco nodoso. Se guardate il fusto delle piante più vecchie (nessuna pianta in vecchiaia assume le spettacolari forme dell’olivo), potete notare delle creste, ecco, ogni cresta è il riflesso di una radice profonda: la radice va in cerca d’acqua e dunque si muove, e quel movimento, di rimando, si riflette sul tronco. Se la radice cresce, crescono anche creste sul tronco. Se invece muore, le creste si fermano. Siccome la crescita è radiale e diseguale, il tronco risulta contorto e gibboso: per questo suona.Volete ascoltare il suono? Fate un salto al museo dell’Olio, a Castelnuovo di Farfa, al secondo piano c’è la «stanza oleofonica», un’opera di Gianandrea Gazzola: ha preso un albero di olivo col suo bellissimo tronco nodoso e lo ha messo a girare su una pedana. Poi ci ha sistemato intorno delle aste, sembrano puntine che toccano i solchi di un vinile e invece sfiorano le creste del tronco, e così l’olivo gira e suona.
Poi uno dice: eh, l’avanguardia, chi la capisce. Quando i contadini di Fara hanno visitato il museo e si sono trovati nell’ultima stanza, davanti all’olivo che suonava, hanno pianto, alcuni a singhiozzi, vecchi contadini con coppola e abiti pesanti, gente abituata da una vita a salire sull’albero, potarlo, rinforzarlo, a spremere le olive, hanno ceduto davanti a quel tronco nodoso: era un vecchio amico che suonava, forse non voleva morire.
L’olivo suona e illumina anche, diciamo che è una piccola luce perpetua. Nell’antica Roma, la produzione d’olio contribuiva al pil, eccome: alimentazione, cosmesi, lubrificazione di parti meccaniche. Tutti volevano l’olio. Al tempo, a maggior richiesta si rispose con l’ampliamento degli oliveti, in Sabina e nel Lazio meridionale. Man mano che i romani conquistavano territori, costruivano strade e piantavano olivi. Alla fine, fatti i conti sulla base delle anfore accumulate sul monte Testaccio e altri dati, gli storici affermano che a Roma, in età imperiale, ogni cittadino, su un milione di abitanti, consumava, e per vari usi, due litri di olio al mese.
La piccola luce perpetua ha continuato a brillare, anche quando con la fine dell’Impero Romano gli appezzamenti di olivo si ritirarono, insieme alle strade, ai ponti, alle opere di regimentazione delle acque.
Questo perché, insomma, i nuovi arrivati mostrarono di non gradire l’olio: come condimento preferivano il lardo, lo strutto e il latte, e poi meno vino e più birra, quindi l’olivo cedette il posto alla quercia. Sotto la quercia, poi, c’erano le ghiande e con le ghiande si allevavano i maiali, appunto: più lardo, meno olivi, più querce, più maiali. Allora gli olivi si chiusero all’interno dei conventi. Siccome però i monaci usavano l’olio anche per illuminare i riti sacri, dobbiamo ai monaci benedettini di Farfa in Sabina, San Vincenzo al Volturno, Montecassino, e anche a quelli dell’area padana la sopravvivenza resistenza dell’olivo.
E sì, è un suono, una luce e anche un unguento: nell’antica Atene l’olio era considerato un bene di lusso e tra le classi agiate se ne faceva un grande uso. Si sa che un giovane cittadino che frequentava il ginnasio poteva consumare per l’igiene del corpo e vanità personali fino a trenta litri di olio all’anno, venti per l’alimentazione, tre come lubrificante e per l’illuminazione, mezzo litro come farmaco e un paio di litri ancora per i riti sacri.
Suona, illumina e lenisce i nostri sfinimenti e ci fa più belli. E poi chi non ha un ricordo legato all’olivo?
Mattina presto. Mia mamma in lacrime entra ed esce dalla stanza di mio nonno insieme a un’amica e altre donne, fanno delle cose che non capisco, gli uomini sono tenuti a distanza, anche mio padre non si avvicina. Poi qualcuna dice a mia mamma: – Lo laviamo con l’olio, va all’altro mondo tutto pulito e profumato.Per l’altro mondo non so, ma se coltiviamo e curiamo l’olivo di sicuro saremo più puliti e profumati per questo mondo. Non è poco.