Nel lontano 1975 fui testimone di un fatto che allora, bambino di nove anni, mi turbò molto. Vidi in tv quelli che una volta venivano chiamati sceneggiati.
Ovviamente non starò qui a ingannarvi dicendovi che ricordo tutto di quello sceneggiato, quando mai, anzi il turbamento era legato a sole poche immagini: c’era una pianta che sembrava viva, sensibile e cosciente tanto da essere testimone di un omicidio. All’epoca – quello invece lo ricordo bene – cominciai a guardare le piante del giardino condominiale (tra cui un magnifico cedro del Libano) con occhi diversi: pareva che mi parlassero.
E tra l’altro ho mantenuto questa convinzione fino all’adolescenza, ma la sensazione era legata alla balbuzie, non parlavo ma stravedevo e antropomorfizzavo tutto il creato.
Lo sceneggiato si chiamava La traccia verde (tratto dal romanzo di fantascienza di Gilda Mussa, Giungla Domestica, ripubblicato per fortuna da Nostos). L’ho potuto recuperare grazie ai potenti mezzi della rete e ora l’ho rivisto: niente male, c’era un Sergio Fantoni in ottima forma.
Nella sostanza, la Dracena collegata a una specie di macchina della verità reagiva agli stimoli esterni fino a manifestare un’attività emotiva, sì, una coscienza, e insomma grazie alla Dracena (che quasi parlava) si incastrava un omicida.
Era il 1975, lo sceneggiato mi turbò molto ma nonostante la mia inquietudine il tutto è rimasto nell’ambito della fantascienza, almeno fino agli ultimi anni. E sì, perché, almeno una volta al mese, quando sono in giro per convegni a tema agricolo, mi capita di incontrare una persona che crede che le piante abbiamo una coscienza, e che un giorno la scienza lo dimostrerà (e certo, sarà un bel guaio anche per quelli di noi che sono vegetariani e vegani, poi non resta che mangiare pietre o fare la fotosintesi) e che comunque i segnali sono già evidenti a tutti.
Le piante sono organismi viventi che hanno sviluppato in milioni di anni strategie di sopravvivenza affascinati e sopraffine, davvero da lasciarci a bocca aperta, almeno per noi sapiens che ancora soffriamo di mal di schiena a causa della sopraggiunta posizione eretta e delle carie ai denti per l’amido in eccesso (da annoverare tra i danni della scoperta dell’agricoltura).
Ma la coscienza è un’altra cosa. Sì, d’accordo, i nostri migliori scienziati, interrogati sulla questione, balbettano come facevo io un tempo, ma su un fatto tutti concordano: per avere una coscienza ci vuole un apparto di sostegno, per così dire, una struttura neuronale di notevole di complessità strutturale, organizzativa e funzionale.
Gli ultimi studi (citiamo quelli di Feinberg e Mallat) arrivano alla conclusione che le piante, con la loro relativa semplicità organizzativa e la mancanza di neuroni e cervello, non abbiamo coscienza.
Probabile che sia questione di linguaggio, magari, come capitava a me, piccolo balbuziente, siamo portati ad antropomorfizzare. Una tendenza che si nota soprattutto nel linguaggio che usiamo quando parliamo dell’intelligenza delle piante. Magari per raccontare i risultati di un esperimento a un pubblico sensibile ma non addetto ai lavori tralasciamo la parte tecnica che spiegherebbe (con varie complicazioni chimiche) la speciale fisiologia delle piante e usiamo belle metafore ma a volte fuorvianti che ci portano a vedere troppe somiglianze tra la nostra coscienza e alcuni meccanismi adattativi delle piante, e, metafora dopo metafora, aggiungi gli ovvi bias di conferma, ecco che siamo nei pressi della “traccia verde”, nel senso dello sceneggiato.
Il territorio dell’intelligenza delle piante è meraviglioso e può essere utile anche a noi per realizzare piante migliori. Per questo, in questo numero parliamo di alcune nuove e affascinanti tracce verdi.