Senti, andiamo subito sul pratico: perché coltivi (anche) mais? A chi lo vendi, a che serve, non hai paura di occupare per anni i terreni e ridurre la biodiversità, ecc.?
Coltivo mais perché è una delle piante più efficienti nel convertire anidride carbonica e acqua in carboidrati grazie all’energia solare: in 120 giorni, da maggio a settembre, un metro quadro di mais, con 7 piante, riesce a produrre mediamente in Pianura Padana 1 kg di granella, e considerando l’intera pianta circa 2 kg di sostanza organica: per fare questi 2 kg sottrae dall’atmosfera quasi 3 kg di anidride carbonica. Sono numeri eccezionali, sembra ci sia un errore di calcolo in questi numeri. Ma la materia non si crea e non si distrugge ma si trasforma e infatti la pianta trasforma l’anidride carbonica e l’acqua in carboidrati e ossigeno che viene rilasciato in atmosfera.
Quindi a metro quadro?
Ogni metro quadro coltivato a mais quindi produce 2 kg di sostanza organica, e rilascia in atmosfera 2 kg abbondanti di ossigeno oltre a 500 kg di acqua traspirata sotto forma di vapore. Questo vapore poi forma nuvole e pioggia che torna sulla terra, è un ciclo e dire che il mais consuma molta acqua, come ha fatto Slow Food all’expo di Milano è dunque fuorviante perché si tratta di un ciclo…diciamo che il mais ricicla l’acqua come tutte le piante del resto.
Va bene, e la biodiversità…
Il discorso sulla biodiversità, intesa come grado di variazione delle forme di vita all’interno di una data specie, ecosistema, bioma o del pianeta intero, è complesso, perché dipende appunto dall’ambito in cui la considero. Un’elevata biodiversità in un campo coltivato può ridurre la produzione e spingere alla coltivazione di nuovi terreni da qualche altra parte nel globo riducendo quindi altrove la biodiversità. Da questo punto di vista credo che il mais consenta di rispettare meglio la biodiversità a livello globale di molte altre colture. A livello di singolo campo credo che la tecnica colturale influenzi la biodiversità almeno quanto la coltura; ad esempio si è visto che la semina su sodo favorisce moltissimo l’entomofauna del terreno che, non più sconvolto dall’aratura, facilita il proliferare di insetti e lombrichi etc. Ora, questa tecnica si è molto diffusa soprattutto all’estero offrendo grandi vantaggi per ridurre l’erosione dei suoli e l’ossidazione della sostanza organica, è la forma più “spinta” di agricoltura conservativa. In pratica sono state messe appunto delle seminatrici che, generalmente tramite appositi dischi, riescono ad aprire il terreno non lavorato e depositare il seme alla giusta profondità e a richiudere il solco per farlo germinare ed emergere garantendo quindi un giusto mix di umidità e aria: sembra facile ma è molto più complesso della semina su terreno lavorato perché ho meno attrezzi per correggere “il tiro”. Devo gestire il residuo delle colture precedenti o delle colture di copertura: mi serve come pacciamatura per ridurre l’evaporazione e come nutrimento di microorganismi, ma devo evitare d’infilarla nel solco di semina altrimenti il seme non va a contatto col terreno e non assorbe l’umidità necessaria. Insomma la biodiversità è questione complessa, per ottenerla e mantenerla ci vogliono pratiche innovative.