Tre domande allo scrittore Daniele Rielli, autore del libro Il Fuoco Invisibile– storia umana di un disastro naturale (edito da Rizzoli)
Da dove sei partito per scrivere tuo libro?
Da mio padre. Per mio padre perdere gli ulivi che aveva ereditato da suo padre e da suo nonno è stato un dramma senza uguali, cercare di farne sopravvivere almeno qualcuno – alberi comunque oggi ridotti a dei fantasmi rispetto a quello che erano prima della malattia – è diventata un’ossessione. L’unica cosa che ho cercato di mantenere simile al reportage è stato il rigore scientifico sottostante, ovviamente aggiornandolo alle scoperte intercorse nel frattempo, scoperte che comunque non hanno fatto che confermare il quadro originario, quello che al tempo fu ignorato da tutti, o quasi
Qual è lo scenario che ti sei trovato davanti?
Lo scenario era questo: a Gallipoli era arrivato un pericolosissimo patogeno da quarantena che prima di allora non era stato individuato in Europa: xylella fastidiosa. Si tratta di un batterio per il quale non esiste una cura, l’unica cosa che si può fare è tagliare gli alberi infetti per impedire che facciano da base alle infezioni di altri alberi. Questo concetto per lungo tempo in Puglia non è passato né presso la popolazione ne presso le istituzioni, si sono invece diffuse una pluralità di teorie del complotto più o meno deliranti, teorie immaginavano un piano segreto delle multinazionali per sostituire le piante del Salento con piante transgeniche, oppure che delle persone con delle tute anticontaminazione bianche avvelassero le piante di notte, teorie completamente false che sono poi sono state appoggiate da cantanti, attori, comici e celebrità nazionali. Gli stessi ricercatori che avevano scoperto il batterio sono stati indagati per anni dalla magistratura, fra le accuse quelle di aver diffuso loro stessi la malattia. Sono stati archiviati soltanto dopo anni, senza nessuna scusa e senza neppure arrivare al processo.
Una cosa che hai scoperto scrivendo il libro?
Durante l’epidemia si diffuse l’idea che gli ulivi fossero nel Salento da sempre come monocultura e che fossero piante “autonome”, in grado di fare tutto da sole. Entrambi sono falsi storici, prima di tutto gli ulivi vanno seguiti, come qualsiasi altra coltivazione, poi la monocultura dell’ulivo nel Salento nasce nel ‘700 con l’economia dell’olio lampante, l’olio che fino all’invenzione dell’elettricità serviva per l’illuminazione pubblica e privata e per scopi industriali. Prima di allora l’ulivo esisteva già nel Salento ma assolutamente non nelle quantità odierne, la maggior parte del territorio era coperto da boschi. Dal ‘700 alla fine dell’800 nel porto di Gallipoli arrivavano navigli da tutta Europa, il Salento era una regione che produceva energia per tutta Europa, le olive venivano molite nei frantoi ipogei, luoghi sotterranei e infernali dove le condizioni di lavoro erano terrificanti. In un capitolo del libro racconto la vita in prima persona di un frantoiano di quel periodo storico. Fu quest’industria molto dura e gestita secondo criteri oligarchici a disboscare il Salento e poi piantare ulivi ovunque, questa verità storica però è stata rimossa da una narrazione completamente inventata che voleva l’ulivo come una pianta spontanea e autosufficiente, espressione dell’estrema benevolenza della natura. Non è andata così, ma la storia di copertura ha avuto molto successo, anche perché serviva a cancellare il fatto che nel ‘900 gli ulivi del Salento sono stati gradualmente abbandonati perché non si prestavano bene alla produzione di olio extravergine, o meglio potevano fare anche un ottimo olio anche per scopi alimentari, ma con dei costi elevatissimi, per nulla competitivi. Il risultato è stato che all’arrivo di Xylella gli uliveti salentini servivano soprattutto per percepire contributi europei ed erano in stato di abbandono, il che non ha causato la malattia – come è stato spesso detto erroneamente –ma ne ha sicuramente accelerato il decorso.