Mio nonno Antonio, contadino meridionale, era un uomo a chilometro zero. Ma davvero, non per moda e nemmeno per capacità previsionale su come poi sarebbe andata la moda del chilometraggio. Se non fosse stato per le due orribili guerre novecentesche non si sarebbe mosso da casa, dalla sua terra: terra, poi, è un eufemismo, un paio di ettari, due vacche nevrasteniche e tanto lavoro, dall’alba al tramonto, là dove capitava.
A proposito di guerre. A parte che mio nonno dovette partire a 18 anni appena compiuti (classe maledetta, 1899), a parte che sul Piave si congelò le dita dei piedi (due dita gli vennero amputate) perché non aveva le scarpe adatte, ma appena arrivato fu accusato di diserzione, pare avesse poi disobbedito agli ordini di un tenente piemontese che aveva ordinato alla truppa di non bere acqua da un torrente: gli austriaci l’avevano avvelenato. Mio nonno e altri sfortunati suoi compagni bevvero lo stesso e il tenente si innervosì parecchio: lo fate apposta, andate in infermeria e non in trincea.
Mio nonno non andò in corte marziale però: si scoprì l’equivoco, non aveva disobbedito agli ordini, non li aveva capiti. Parlava un dialetto stretto, comprensibile a pochi. Sembra una storia infame, limitata alla mia famiglia, eppure in un racconto di De Roberto, Paura (ripubblicato da poco dalla splendida antologia curata da Giacomo Papi: Italiaca) di questo si parla: italiani coscritti nella Grande Guerra che vanno a morire senza neppure capire gli ordini.
Tuttavia mio nonno si riprese la sua vita. Qualche anno dopo si sposò perché comprò una spandi letame. Macchina efficace, soprattutto perché gli permetteva di non maneggiare direttamente la materia in fermentazione. Le donne tendevano a farci caso a queste cose, cioè, agli uomini che lavoravano in stalla, con quell’odore addosso. Anche se mia nonna morì per un’infezione 20 giorni prima che arrivasse in Italia via America la penicillina, si può dire che il progresso energetico ottenuto tramite le macchine (spandi letame compresa) portò benefici alla mia famiglia.
Mio padre per esempio, cominciò a studiare quando in famiglia arrivò il trattore: sostituiva l’energia dei muscoli. Non c’era bisogno di braccia a tempo pieno.
Parliamo sempre di cibo. Conversazioni che si appoggiano sul principio della convivialità, quindi sono sempre le benvenute: si fa amicizia, si conoscono usanze culturali.
Tuttavia per approfondire il principio dovremmo cominciare, e non solo come chiosa a margine dei nostri raffinati discorsi culinari, a parlare dell’energia necessaria per produrre il cibo. Se la forza dello spandi letame e del trattore ha portato benefici a tutti, ora è il momento di sperimentare altre forme di energia, necessarie a innervare strumenti innovativi che rendano il cibo non solo disponibile per tutti ma anche meno impattante.
Senza energia nulla è possibile. Per parlare di cibo parliamo di energia allora, per rendere compresibili e auspicabili nuovi strumenti di liberazione.