Le ultime righe di Sud e magia, di Ernesto De Martino – ma solo le ultime righe – quasi le ricordo a memoria. Il libro è un grande classico, anzi, forse è un grande classico rimosso, almeno nelle discussioni sul sud, sulla miseria e sui bei tempi di una volta. De Martino nei suoi lavori sul campo (tra l’altro parecchio innovativi nell’approccio, fu affiancato dallo psichiatra Giovanni Jervis, dall’antropologa Amelia Signorelli, dall’etnomusicologo Diego Carpitella e altri) descriveva un sud poverissimo e per questo misero e fragile: “fascinazione, possessione, esorcismo, fattura e controfattura sono da ricondurre all’insicurezza della vita quotidiana”. Cos’altro è il ricorso alle pratiche magiche se non un tentativo di limitare e tenere a bada la fragilità? Una protezione. Del resto, come non essere insicuri?
Alta mortalità infantile, alta mortalità delle donne per parto. E poi la fatica. Le lunghe marce quotidiane per raggiungere il luogo di lavoro. Partenza a mezzanotte e arrivo all’alba. La stanchezza fisica, la prostrazione, la mancanza di cibo. Vedevi i fantasmi, i morti, le streghe. “Sono cose che capitano a noi contadine”. Così una contadina disse a De Martino, con tutta la rassegnazione del caso. Così ho sentito dire tante volte a mia nonna, a mio nonno e a tutto il parentame contadino.
E comunque, le ultime righe le ricordo perché De Martino raccontava, a mo’ di metafora, un episodio dell’Iliade. Achille è abbracciato al corpo di Patroclo, è affranto e senza armi. Allora la madre, Teti, gli porta un nuovo scudo. Splendente, magnifico, e ricco di incisioni. Achille può contemplare nello specchio dello scudo l’ordine naturale e civile, circoscritto nella corrente di Oceano. Alla vista di queste immagini (simbolo della misura e dell’opera umana) Achille torna al suo destino eroico: è giunta l’ora di armarmi!
Anche per le genti meridionali – sono appunto le ultime righe di Sud e magia – è giunta l’ora di abbandonare lo sterile abbraccio con i cadaveri della loro storia, e di dischiudersi a un destino eroico, più alto e moderno: un destino che non sia una fantastica città del Sole da fondare tra le montagne della Calabria, ma una civile città terrena, unicamente affidata all’ethos dell’opera umana. Nella misura in cui questo accadrà il regno delle tenebre e delle ombre sarà ricacciato entro i suoi confini, e impallidirà anche il fittizio lume della magia, con il quale uomini incerti, in una società insicura, surrogano, per ragioni pratiche di esistenza, l’autentica luce della ragione.
Il grande De Martino, progressista e illuminista, appunto. Come non ricordarlo. E tuttavia, ora che in generale, e non solo nel Sud Italia, abbiamo sconfitto fame e malattie varie, ora che nessuna contadina, per quanto povera possa essere, assiste alla messa dei morti (un’esperienza abbastanza diffusa: c’era sempre qualche contadina che dichiarava di aver visto i fantasmi celebrare una messa), ora che la taranta si balla per divertimento e non per entrare in trance e scendere fino agli inferi e lì trovare e schiacciare il ragno, ora che in pochi dichiarano di sentirsi agiti da una forza sconosciuta e maligna, insomma, ora, cullati dal benessere, nel paese di Masterchef, ora che celebriamo il Bengodi quotidiano entrando in un supermercato, perché sopravvivono alcune credenze? Rituali magici, rimedi della nonna, omeopatia e affini? Ci sono ancora le streghe e le fattucchiere? Ma non bastava la luce della ragione? Per abbandonare l’abbraccio con i cadaveri della storia, eliminare i bias e le fallacie? Per procedere con la luce della logica e scegliere ogni volta per il meglio e sulla base di un’analisi epistemologica? Esiste un Achille che forte del suo scudo dice: è giunta l’ora di armarmi!