Non so da voi, ma dalle mie parti c’erano le prove tecniche di primavera. Non appena le giornate si allungavano, qualcuno della famiglia, mia mamma, più spesso mio padre, ma in realtà tutto il quartiere seguiva lo stesso rituale, insomma, insomma a prima mattina si aprivano le tapparelle, e qualcuno cantava era de maggio e te cadéano ‘nzino, a schiocche a schiocche, li cerase rosse.
La canzone basata sui versi di una poesia di Salvatore Di Giacomo (1885) raccontava di due amanti che si ritrovano a maggio. E si apriva, appunto, con questa immagine primaverile e sentimentale: lei in un giardino con i grappoli di ciliegie che le cadono in grembo, lui incantato, a bocca aperta. Le prove tecniche di primavera, dunque. Il ciliegio fioriva e produceva sì un frutto (una drupa), ma, e non solo simbolicamente, alimentava in noi il desiderio.
Il ciliegio rimanda quasi in ogni cultura al desiderio.
Merito della fisiologia della pianta. Fiorisce all’improvviso. Il giorno prima è un albero spoglio, dormiente, poi durante la notte la temperatura si alza inaspettatamente di qualche grado ed ecco, la mattina dopo, il ciliegio meravigliosamente fiorito
Così come la fioritura, potente e improvvisa, così scopriamo è il nostro desiderio.
Tutta la nostra vita si basa sul desiderio, è ciò che ci rende vivi e ciò che rende palese la nostra natura corporea, dunque umana: le macchine finché non avranno corpo non potranno desiderare.
Ma il desiderio è un simbolo ambivalente, desideriamo e vogliamo possedere l’oggetto/soggetto del desiderio. A volte lo bramiamo così tanto che lo mortifichiamo, lo ingabbiamo, lo spegniamo, lo distruggiamo.
Forse per evitare questo abbrivio che giapponesi hanno eletto il ciliegio a simbolo dell’impermaneza. I centomila ciliegi selvatici alle falde del monte, poco distante da Tokio, attirano i giapponesi, ogni anno incantati, come se fosse la prima volta, davanti alla spettacolare fioritura: i fiori sono effimeri come la vita. E l’impermanenza, no? I fiori di ciliegio – dicono i giapponesi – ci insegnano a guardare le cose e le situazioni così come sono, senza sviluppare sentimenti di attaccamento o di avversione. Soffriamo, vero. Non perché l’impermanenza sia di per sé sofferenza, ma perché non riusciamo ad accettare che le cose cambino.
Ma tutto questo riguarda l’apparto simbolico della pianta, noi qui e ora, ci occuperemo di cose agronomiche, che come si sa sono alla base della nostra cultura: prima coltivi, dopo mangi, dopo crei simboli.Parliamo allora del ciliegio.