Paolo Inglese, Professore di Orticoltura nonché Director of the Museum System of the Università degli Studi di Palermo, ci racconta come fa il Fico d’India a crescere sui tetti e nei cassetti delle scrivanie.
Carta di identità del Fico d’India?
Migrante al contrario, il ficodindia nasce in Messico, dove entra nel mito, come padre fondatore della capitale azteca Tenochtitlan. Gli aztechi, temibili guerrieri, avrebbero fondato la loro città capitale nel luogo dove avrebbero incontrato un’aquila su un ficodindia innestato sulla roccia, con un serpente tra gli artigli. La cosa singolare è che la bandiera del Messico moderno e quella della seconda patria del ficodindia, l’Italia, sono identiche, se non fosse proprio per lui, per quell’immagine di ficodindia, aquila e serpente che campeggia sul bianco messicano.
Ok, per data di nascita. E in Europa? Come arriva?
Il primo incontro europeo fu probabilmente nelle isole caraibiche. La sorpresa dovette essere grandissima, di fronte a una pianta senza foglie, con le spine, tanto strana da chiedersi ‘è arbore o mostro?’ Indiano, non è, ma così è rimasto il nome, almeno in Italia. Per gli arabi maghrebini è il karmouss, ‘il fico dei cristiani’, per noi, al contrario è ‘il fico dei berberi’, per gli ebrei israeliani è ‘sabra (tsabar)’, che è poi lo stesso termine con cui ci si riferisce agli ebrei nativi di Israele.
Caratteristiche?
Tenaci e spinosi, e capaci di sopravvivere in ambienti impossibili, ma dolci dentro.
Mi interessa questo aspetto cosmopolita ma locale…
Sì, la sua è una geografia cosmopolita, ma locale. Provate a raccontare a un siciliano che il ficodindia siciliano non è. Non vi crederà e, comunque, dirà, che quello siciliano è ‘diverso’, unico e totalmente ignaro delle sue origini meso-americane.
Dal punto di vista agronomico?
La sua vera patria sono le zone aride o semi-aride di ogni dove. Può vivere su un tetto di una casa distrutta, come su una grondaia di una fabbrica abbandonata, ma non disdegna neanche una pietra su un obelisco, magari in Etiopia, nel Tigray, a Vukro, a 10-12 metri di altezza, senza un grammo di terra che non si sia prodotto da se. Io l’ho trovato nel cassetto della mia prima scrivania condivisa, da giovanissimo ricercatore universitario, ancora volontario.
Ma come?
Stava li chi sa da quando, almeno un anno, certamente. Ma era viva. Non so perché, ma l’ho tirata fuori dal cassetto e l’ho messa in un vaso, una piccola pala, o cladodio,. Lei felice ha messo radici e germogliato e io, mi sono innamorato di questo essere vivente capace di stare prigioniero in un cassetto per anni, aspettando la vita. Oggi diremmo che è resiliente. Si, lo è, ai limiti del miracoloso.
Che potenzialità ha? E che problemi riscontri?
Sai, dipende cosa intendi per agricoltura. Se è sussistenza, se, cioè, serve alla vita delle popolazioni rurali che possono raccoglierlo o coltivarlo in quelli che i messicani chiamano le ‘huerta’, cioè i piccoli giardini familiari, allora la sua potenzialità è enorme.
Nel senso che ce n’è per tutti?
Il frutto per noi, le pale per gli animali, i giovani germogli ancora per noi, in forma di insalata, e poi i semi per fare l’olio, i frutti per fare una sorta di mostarda ‘ queso de tuna’, ma anche per proteggere il giardino o, le singole pale, per difendere dal vento i germogli di piccole piante da orto. Insomma, dimmi cosa ti serve e ti darò una risposta, potrebbe essere il suo motto. Ah, dimenticavo, il carmino, il colorante rosso che deriva dal corpo del Dactilopius coccus, una cocciniglia che cresce solo su O. ficus-indica e che è il miglior colorante rosso del pianeta.
La nostra agricoltura non è proprio di sussistenza.
Infatti, se invece parliamo di agricoltura destinata al mercato, allora è diverso. Il ficodindia è un foraggio eccezionale, solo in Brasile lo coltivano su un milione di ettari per produrre foraggio li dove le risorse di acqua limitate, non lo consentirebbero. Il frutto invece ha dei limiti: le spie e i semi. Le prime puoi toglierle, ma i semi rimangono e in un mondo che prova fastidio a mangiare due piccoli semi, figuriamoci che problemi ha un frutto che ne ha 250-300! Eppure, la Genesi è stata chiara. Dio di fronte al seme, disse che era cosa buona e giusta! Ma non per noi! Ridurre il numero di semi è un obiettivo possibile se solo si facesse ricerca, ma non è una realtà.
Aspetta, spiega, cosa si potrebbe ottenere dalla ricerca sul fico d’india e perché è difficile fare ricerca in Italia?
Dalla ricerca sul ficodindia potremmo avere molti vantaggi. Il primo e più evidente è la possibilità di ottenere frutti diversi, con minor numero di semi. Questo è un obiettivo fondamentale, ma lo è anche lo sviluppo di prodotti nutraceutici dai frutti ai cladodi. Recuperare, in chiave moderna, gli usi storici della medicina azteca di quello che, in fondo, si chiamava ‘albero delle fratture’, utile, quindi a curare le ferite e le fratture.
Poi?
Ma c’è anche da lavorare sulla funzione agroecologica, lo stock di carbonio, l’aumento di biodiversità in zone subdesertiche. Difficile farlo, in Italia, dove si immagina che questa pianta sia un relitto dell’agricoltura antica siciliana, con soli 4000 ha. Più facile farlo in una dimensione internazionale, con Paesi Europei e nord africani per i quali questa specie è fondamentale nell’agricoltura di sussistenza, nell’alimentazione del bestiame e nella gestione del paesaggio. Una specie ponte tra continenti, popoli, culture, come poche altre al mondo.