Tutti conosciamo il “Cadeau” di Man Ray, il ferro da stiro coi chiodi saldati sulla piastra, ma io a cinque anni non l’avevo ancora mai visto. Perciò quella bislacca padella col fondo tutto bucherellato appesa accanto al camino fu il mio primo incontro ravvicinato con un oggetto improbabile. Immaginai con raccapriccio il delizioso intingolo del capretto brodettato colare da quei fori direttamente sul fornello acceso, e quindi non solo sfrigolare, ma – orrore – andare letteralmente in fumo.
Ora lo sapevo: l’esistenza di un oggetto non è sufficiente a dimostrarne la razionalità.
Mi chiesi chi mai potesse avere acquistato una roba così in quella vasta famiglia cementata dal buon senso, poi scossi la testa e tornai ai miei soldatini. Due giorni dopo vidi mio nonno impugnare lo sciagurato arnese e poggiarlo sul fuoco agonizzante nella brace del camino. Allora posai il pallone e mi misi a osservarlo: il nonno ficcò le sue manone in un sacchetto di iuta e ne estrasse un pugno di castagne, poi prese dal taschino del panciotto un coltellino e cominciò a inciderle una a una. Le lanciò per qualche minuto nella padella e poi me ne porse una. La mia prima caldarrosta. Fuori profumava solo di legno carbonizzato. Dentro profumava solo di castagna e malinconia. Con un sorriso indefinibile me ne offrì subito un’altra, con l’aria di condividere con me ben altro che una leccornia.
Da allora, ho mangiato caldarroste ogni anno per sessant’anni.
E oggi lo so quanto ci somigliamo.
Anche a noi basta una sbucciatura sul cuore, un taglietto scattoso dato in punta di temperino dove il guscio è più sottile, e il mondo ci si mangia in un boccone, né crudi né cotti: semplicemente gettati vivi nel fuoco.