Il mio ricordo del cibo si lega al rumore. Nell’atto della preparazione ogni pasto ha un suo modo di divenire attraverso il suono. La verdura prende il ritmo costante del coltello che batte sul tagliere, l’insalata passa sotto il getto d’acqua del lavandino. Il caffè brontola, il passato di verdure è preceduto dal fastidioso uso del frullatore. Per il tiramisù invece occorre il suono dei gusci di uova rotti sul bordo della scodella. La costanza delle fruste che sbattono sui bordi invadendo la stanza. Lo zucchero rovesciato lentamente, le bolle d’aria che scoppiano agitate negli albumi montati a neve, l’inconfondibile strappo della plastica che riveste i biscotti. Il suono del cucchiaino che solca e affonda nella crema. Non è il sapore che mi porta da qualche parte, ma il suono, del tiramisù. Sono a letto, sono bambina, è il giorno del mio compleanno, è estate, sono felice, sono viziata. Rimango stesa, con gli occhi aperti che guardano la luce passare dalle fessure della porta. Lo faccio ancora, ascoltare il mondo che si muove, le chiacchiere lontane e soffuse, aspettare un po’ prima di svegliarmi veramente e aprire la porta. Quando qualcuno prepara il tiramisù fa un rito, lento, attento e delicato. Deciso con i gusci, moderato con gli albumi, vivace con i biscotti. Con questa sinfonia ho imparato ad alzarmi e aprire la porta.