Erano tonde, sottilissime, di color bianco-opaco, come di carta. Pressoché insapori, se non per un vago retrogusto di cartone e farina, il che le rendeva attraenti e perturbanti. Ne ingoiavo una dopo l’altra, prelevandole da una busta di carta che il prete teneva dentro l’armadio della sacrestia, insieme a un’altra busta più grande, gonfia delle deliziose sfoglie, tutte ammassate, intonse, candide e pulite come ossa. Le ostie non ancora consacrate, alcune spezzate, difettose, altre (le più pregiate) intere, sfuggite chissà come alla pioggia dell’acqua santa, con sopra impresso il marchio del sigillo (JHS, trascrizione latina dell’abbreviazione del nome greco di Gesù) erano l’aperitivo domenicale. Facevamo la fila, noi ragazzini non ancora comunicati, per accaparrarcele, dopo la messa. Qualcuno fingeva di avere fratelli a casa, per averne due pacchetti, tre, un centinaio di sfoglie ciascuno. L’eucarestia laica veniva perpetrata sul balcone, tra gli effluvi del ragù. Si poteva lasciarle sciogliere sotto la lingua, o addentarle, persino: l’inopinato. Il vago sapore dell’amido rimandava sentori metafisici; l’ostificio fabbricava cialde di quasi-nulla per la celebrazione liturgica. Pane minimo, cialda agglutinata, particola simil-plastica, ineffabile piacere sub-linguale, mai più ritrovato… La mia infanzia: leggevo Topolino e sgranocchiavo il corpo di Cristo.