A quel tempo non c’erano i cellulari, siamo verso la fine degli anni ’70. Io ho meno di dieci anni. Con la nostra Fiat 131 bianca spesso la domenica andavamo tutti dai miei nonni in campagna, io, i miei genitori e i miei tre fratelli, assai più grandi di me. A un certo punto nel viaggio, che verso metà si faceva pieno di curve, mi veniva mal di stomaco. Ma era anche colpa mia, perché tutte le volte mi ostinavo a guardare, sdraiata sulle gambe dei miei fratelli, gli alberi che sfrecciavano veloci indietro.
Non c’erano i cellulari, ma mia nonna sapeva perfettamente quando saremmo arrivati. Indovinava il momento, il minuto, perché quando entravamo nel cortile con la macchina lei ogni volta, in quel preciso momento, stava mettendo il brodo nei piatti.
Tempo di scendere, correre a lavarci le mani, ed eravamo tutti in tavola. I quadrucci li faceva lei a mano, infatti in cucina c’era sempre ancora un filo di farina in terra, pronta a farci scivolare. Il bollito non lo mangiavo, mi faceva impressione, e mentre gli altri si dedicavano alla carne, io gustavo un secondo piatto di brodo, mi spettava, erano tutti d’accordo. A me piaceva da matti sentire come dal primo al secondo piatto cambiavano le cose. Nel primo i quadrucci erano più duri e spessi e il brodo era piccante, nel secondo la pastina si era fatta morbida e il brodo era più dolce, ne ero sicura. Quella per me era una piccola magia che gustavo lentamente, in totale segreto, da sola, facendo finta di niente a tavola. E ancora oggi, quando faccio il brodo la domenica, ne tengo poco poco da parte in cucina, per sentire, senza farmi vedere, che dopo cambia.