Gilberto Corbellini nel suo ultimo imperdibile libro Storia della malaria in Italia. Scienza, ecologia, società – pubblicato per Carocci, scrive la storia della malaria come non l’avete mai letta, e ricordiamo che la malaria è stata forse la principale causa di morte nella storia evolutiva dell’uomo, quanto meno dopo la comparsa della variante letale di Plasmodium falciparum, tre o quattro mila anni fa.
Pubblichiamo qui un breve estratto per gentile concessione dell’autore.
Il concetto di “miasma palustre”, benché eziologicamente inesatto, era di fatto operativamente funzionale, cioè era in grado di produrre informazioni corrette per l’identificazione dei luoghi della malaria nelle zone temperate. Un tale concetto non sarebbe stato altrettanto efficace al di fuori dell’area mediterranea e in particolare nell’Africa subsahariana, dove del tutto differenti erano e sono i luoghi della malaria.
Nella seconda metà dell’Ottocento, mentre si preparavano e si realizzavano le grandi scoperte malariologiche, in prevalenza i medici attribuivano la causa della malaria soprattutto al suolo. Gli studi di geografia medica mettevano in evidenza che le febbri intermittenti erano diffuse anche in luoghi diversi da quelli paludosi, per esempio in zone aride ed elevate. Nelle zone paludose le febbri apparivano solo più gravi e frequenti. Quindi non solo la palude, ma anche il clima e le condizioni locali del terreno dovevano essere considerate. Per dar conto della presenza della malaria al di fuori delle zone palustri alcuni ammettevano l’esistenza di paludi sotterranee, mentre altri prefiguravano un “potere vegetativo” del suolo, dipendente dalla materia organica e che insieme al calore, all’umidità e agli agenti atmosferici generava la malaria in diversi luoghi14. Il fatto che la malaria fosse presente anche in luoghi aridi e nei climi tropicali venne assunto nel 1871 dal medico inglese Charles F. Oldham come dimostrazione che i miasmi palustri non potevano essere la causa della malaria. Per Oldham la malaria non era nemmeno causata dalle condizioni del suolo, né si trattava di una malattia contagiosa, bensì di un improvviso raffreddamento dopo un’esposizione prolungata al calore.
Se la mancanza di una correlazione necessaria fra malaria e paludi creava non poche difficoltà alla teoria del “miasma palustre”, nei luoghi malarici africani le particolari condizioni di trasmissione rendevano possibile avvicinarsi alla verità sull’origine dell’infezione anche senza l’ausilio dell’indagine sperimentale. Infatti, a quanto risulta da alcune opere di viaggiatori della seconda metà dell’Ottocento, in talune zone dell’Africa orientale era una nozione popolare che le zanzare fossero portatrici delle febbri.
Una delle spiegazioni delle diverse concezioni popolari circa la causa della malaria nelle regioni temperate e in quelle africane, soprattutto dell’Africa subsahariana, risiede nella differenza fra i vettori responsabili della trasmissione della malaria. Nelle paludi retrodunali si riproduceva il principale vettore della malaria nell’area del Mediterraneo, An. labranchiae, e questo spiega l’associazione che si stabilì fra “mal’aria” e paludi nella tradizione della medicina ippocratica. Era indubbiamente molto difficile, in un contesto ricchissimo di fattori ecologici confondenti, “isolare” il fattore zanzara dall’ambiente palustre nel suo complesso.
In Africa, invece, la palude ricca di vegetazione non produceva e non produce malaria, poiché i vettori principali della malaria sono le specie antropofile del complesso An. gambiae, i cui focolai larvali sono costituiti da piccole pozzanghere assolate e prive di vegetazione in quanto generalmente temporanee. L’anofele antropofila rappresentava e rappresenta un vero indicatore dei luoghi malarici e quindi era molto più facile associare le zanzare alla malattia.
Le differenze nell’ecologia della malaria nel Sud Europa e in Africa, di cui si è ampiamente detto nella Prefazione, spiegano anche i diversi esiti degli interventi di lotta antimalarica, soprattutto per quanto riguarda l’impatto dello sviluppo agricolo sulla diffusione della malattia. Lo sviluppo agricolo e i cambiamenti ecologici ad esso associati ebbero un effetto limitante sulla riproduzione di vettori di malaria europei, che utilizzavano per la riproduzione complesse biocenosi, quali appunto le zone paludose nel caso di An. labranchiae. In questo caso lo “sviluppo”, distruggendo gli ambienti naturali del vettore attraverso la bonifica agricola, favorisce la lotta antimalarica. Nel caso di un sistema vettoriale la cui diffusione e stabilità risultano chiaramente avvantaggiate dall’attività agricola, come è il caso dei vettori del complesso An. gambiae, i problemi sono più complessi in quanto lo “sviluppo” determina generalmente un aumento dell’anofelismo soprattutto quando comporta deforestazione, desalinizzazione delle aree costiere e irrigazione delle savane aride.(Il paragrafo contenuto nel libro Storia della malaria in Italia. Scienza, ecologia, società – nasce da un articolo che l’autore ha scritto insieme a Mario Coluzzi.)