Un giorno, mentre camminavo per strada e notavo le spighe delle graminacee – crescevano e accestivano ovunque –, ho avuto l’impressione di tornare al 1973, quando avevo sette anni e abitavo a Caserta. All’epoca, la strada di casa mia, mezzo asfaltata e mezzo fangosa, finiva di botto, e di botto cominciava la campagna: ettari di tabacco e canapa, e filari di noci che delimitavano i confini. Poi i terreni sono diventati edificabili, quindi al posto del tabacco e della canapa sono spuntati i cantieri e gli sbancamenti di terra, insomma spazi disordinati che in un attimo si riempivano di graminacee: un mare d’orzo e avena selvatici, ondoso e colorato, prima di verde poi di giallo.
Nel 1973, quelle distese di graminacee, vuoi perché erano mosse dal vento e talvolta frusciavano all’unisono, vuoi per il colore dorato (per me bambino così ammaliante), mi chiamavano, mi invitavano ad attraversarle. Sii coraggioso, mi dicevano, sii avventuroso, sfida l’ignoto e i cani rabbiosi, e i vetri, e magari combatti contro le bande dell’altro quartiere, conquista uno spazio, difendilo: vedrai che soddisfazione.
L’ho fatto, e mica solo io, tutti noi del quartiere, bambini, ragazzi e adulti. C’erano intere radure d’orzo allettate, perché una banda era appena passata, due o tre ragazzi avevano lottato ed erano caduti per terra, o c’era un gruppo di ragazzine sdraiate a fumare. Ah, certo, poi c’erano le coppie che si appartavano.
D’estate gli operai dei cantieri tagliavano l’erba e l’ammassavano in covoni, e allora ci si sdraiava sopra per aspettare il tramonto. La luce che si abbrumava, l’aria più fresca, un tripudio di grilli e il classico effetto afterglow, cioè lo spettacolo degli ultimi bagliori dopo il tramonto, con il rilascio di endorfine e le tipiche sensazioni di rilassamento e piacere diffuso.
Non sono solo fatti miei, si tratta di un’esperienza universale. Ho letto uno studio sulla felicità. Chiedevano: ti ricordi un momento felice nella tua infanzia? «Sì, certo, – era la risposta più frequente, – quando da piccolo attraversavo i campi d’estate». Oppure: «Quando mi stendevo sui covoni di grano ad aspettare il tramonto».
Il fatto è che le graminacee sono ovunque, non solo nei campi: appaiono qui e là, a spighe singole, a due a due, oppure a mazzi, tra gli spazi incolti, tra i ruderi, nelle crepe della strada, sì, a volte concedono un po’ di spazio a una malva, a un paio di papaveri, a un tarassaco, ma più spesso occupano il territorio, lo invadono, e quasi sempre si sviluppano in distese erbose.
Ci passiamo accanto sbadigliando, le calpestiamo, starnutiamo per i pollini, ma in sostanza le ignoriamo, eppure un genere della vasta famiglia delle graminacee, il Triticum, è stato così importante per noi Sapiens che possiamo dichiarare: siamo come siamo perché abbiamo domesticato il grano.
Gli aspetti simbolici sono dovunque. Pensate ai miti. Solo per restare ai più famosi: in India, il grano era un dono personale degli dèi, e anche in Egitto, per Iside e Osiride. La Bibbia, poi, è un trattato di agronomia. Volete sapere come si raccoglieva, come si trebbiava, la qualità del grano, le rese? Bisogna leggere la Bibbia: quegli uomini parlavano con Dio e parlavano del grano.
Il mito più vicino a noi, forse quello più preciso nell’indicare la fisiologia del grano, lo dobbiamo ai Greci, e poi, certo, ai Romani (che l’hanno importato e modificato): Demetra in Grecia, Cerere in Sicilia.
Demetra fa una figlia con Zeus (stava sempre in mezzo, Zeus), la chiamano Persefone. Ma il fratello di Zeus, Ade, re degli inferi, la rapisce perché vuole sposarla contro la sua volontà. Sua madre la cerca vagando sulla terra disperata, e per il dolore non fa nascere più nessun seme. Allora Zeus manda il suo messaggero, Ermes, per mettere una buona parola con Ade, e alla fine Ade accetta, sì, ma con un inganno: Persefone può stare con la madre solo durante la primavera e l’estate, mentre d’inverno tornerà giù negli inferi. Demetra per la gioia fa germinare il grano, e da allora lei rappresenta il grano maturo, mentre Persefone il grano in erba.
Poi Demetra fu adottata dai Romani e prese il nome di Cerere, da cui appunto viene «cereale».
Come le graminacee il grano è ovunque, c’ha portato il pane e il pane ha formato la nostra civiltà. Oggi raccontiamo (con un’intervista di cui pubblichiamo alcuni estratti) un libro importante e bello: Storia e civiltà del pane (un viaggio tra archeologia e antropologia) di Lucia Galasso.