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Home L'intervista

Cos’è il reato ambientale?

da Antonio Pascale
30/01/2023
in L'intervista
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L’avvocato penalista Gennaro Iannotti, ragionando su un territorio complesso come l’Italia, ci spiega il conflitto tra diritto, tecnologia e ambiente.

Cos’è un reato ambientale?

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Io credo che il reato ambientale sia il conflitto tra diritto, tecnologia e ambiente. 

Spiega…

Il diritto – che è una creazione artificiale dell’uomo – diventa la voce della natura rispetto alla técne.

E l’ambiente?

E l’ambiente si dissolve nella molteplicità delle interpretazioni (perché il diritto è interpretazione della realtà che si fa norma o interpretazione che produce la norma, come sta accadendo negli ultimi anni, purtroppo. In pratica, con la perdita di centralità del concetto di rappresentanza politica, oggi ci troviamo davanti ad un legislatore che dice al giudice: “tu fammi la sentenza e io ti faccio la legge”… è saltato il principio di separazione dei poteri!!!) 

Va bene, cominciamo dall’inizio

Il nostro Codice penale del 1930 distingue i reati in delitti e contravvenzioni. I delitti sono puniti con la pena dell’ergastolo, della reclusione (che può estendersi da 15 gg a 24 anni) e della multa. Le contravvenzioni sono quei reati minori per cui sono previsti l’arresto (da 5 gg a 3 anni) e l’ammenda. 

Per i reati ambientali?

Anche i reati ambientali si dividono in delitti e contravvenzioni. Prima del 2015, in Italia, l’unico delitto ambientale – nel senso tecnico del termine – era il delitto di attività organizzate al traffico illecito di rifiuti. Tutte le fattispecie contro l’ambiente erano (e, per la maggior parte lo sono ancora) reati contravvenzionali, per i quali non sono previste misure cautelari personali, non possono essere eseguite intercettazioni telefoniche, c’è una prescrizione a 5 anni e c’è la possibilità di estinzione mediante il pagamento della metà del massimo della pena pecuniaria. 

Quindi non c’erano strumenti afflittivi contro chi commetteva un reato ambientale? 

Prima del 2015, l’afflittività della pena del reato ambientale contravvenzionale risiedeva (e risiede ancora) nella confisca del mezzo di trasporto o del terreno adibito a discarica abusiva. L’unica eccezione era il delitto di avvelenamento di acque, ma – tecnicamente – il codice inserisce questo reato nei “delitti di comune pericolo mediante frode”. Poi, nei primi anni del nuovo millennio, venne creato, per via giurisprudenziale, il delitto di disastro ambientale, ricavandolo dal reato di crollo di costruzioni o altri disastri dolosi (art. 434, codice penale). 

Come mai questa complicazione?

L’applicazione del disastro “innominato” ai delitti ambientali fu molto complicata perché il disastro immaginato dal legislatore del 1930 era un disastro che presuppone due elementi: il primo elemento, di carattere “dimensionale”, cioè un evento distruttivo di proporzioni straordinarie, anche se non necessariamente immani, idoneo a produrre effetti dannosi, gravi, complessi ed estesi. Il secondo elemento è di carattere “offensivo”: è necessario che tale evento provochi un pericolo per la vita o per l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone, senza che peraltro sia richiesta l’effettiva verificazione della morte o delle lesioni di uno o più soggetti. Il reato fu salvato dalla corte costituzionale nel 2008 su una questione di legittimità costituzionale sollevata da un bravissimo Gip di Santa Maria Capua Vetere, ma fu necessario introdurre nel 2015 l’apposito delitto di disastro ambientale, insieme con altri delitti, tra i quali spicca quello di inquinamento ambientale, di morte o lesioni come conseguenza del delitto di inquinamento ambientale e omessa bonifica. Ricollegandomi alla superiorità dell’interpretazione della norma rispetto alla norma stessa, il Massimario della Cassazione (l’ufficio che si occupa della massimazione delle sentenze della Corte), dopo l’entrata in vigore la legge 68/2015 sui delitti ambientali, pubblica una relazione dove  dice come il giudice deve interpretare alcune espressioni (le parole sono pietre…) molto “astruse” quali: “compromissione o deterioramento significativo e  misurabile” ovvero, per quanto riguarda il delitto di disastro ambientale, “alterazione irreversibile di un ecosistema”. 

Già mi sembra complicato…

Sì, ma per restare in tema, la vera complicazione è dovuta al fatto che il testo fondamentale della normativa ambientale – il decreto legislativo 152/2006 – al 2018 è passato da 318 articoli a 397, con un totale di 762 modifiche (mediamente, 72 modifiche all’anno). 

Com’è finita?

Che – ad oggi, a quasi otto anni dalla entrata in vigore della legge – si può essere condannati per inquinamento ambientale (reato che va da uno a sei anni) anche senza il superamento dei limiti tabellari previsti dal testo unico dell’ambiente, perché la prova dell’inquinamento deve essere liberamente valutata dal giudice in maniera “qualitativa” e non “quantitativa”. Allora, l’interrogativo circa la sorte dei principi di tassatività e tipicità, ancoraggio del sistema penale basato sulla colpevolezza, ce lo dobbiamo porre. Cioè: lo sforzo interpretativo del giudice, a fronte di elementi descrittivi a dir poco “elastici”, è forse quello di «umanizzare la percezione dell’illecito», con utilizzo solo parziale di parametri scientifici. Ma in tal modo il rischio che si corre è quello di soggettivizzare e rendere ancor più discrezionale la linea di demarcazione tra lecito e illecito.

Facciamo un esempio? La terra dei fuochi, come la vedi?

La vedo un prodotto mediatico che – agevolata dall’assenza di una vera classe dirigente al Sud – ha fatto un danno all’economia e all’immagine della Campania (e, soprattutto, alle province di Napoli e Caserta) straordinario. 

Argomenta!

Il fenomeno dell’abbandono di rifiuti lungo le strade oppure la combustione degli scarti, i cosiddetti “fuochi” appunto, non sono un prodotto campano, ma sono un fenomeno nazionale. L’interramento dei rifiuti è stato inventato dall’industrializzazione del Paese, cioè nel Nord dell’Italia, dove, ancora oggi, capannoni industriali dismessi vengono riempiti di rifiuti e poi incendiati. 

Esempi?

L’incendio del capannone di Via Chiasserini a Milano (che mi ha visto impegnato professionalmente) dell’ottobre 2018 è un esempio. Ho fatto per un anno Caserta – Como per le medesime vicende con i rifiuti “lariani” interrati nei capannoni della n’drangheta. Diciamo che la legge 6 del 2014 (la cd. “legge sulla Terra dei Fuochi”) fu la prosecuzione di quella legislazione repressiva – sorta sull’onda emotiva della strage di Castel Volturno – compendiata nel “modello Caserta”. E quindi – giornalisticamente – fu semplice sovrapporre Gomorra alla Terra dei Fuochi. Sta di fatto che, al giugno del 2017, su un totale di circa 145 ettari di superficie agricola classificata nelle provincie di Napoli e Caserta, ricaddero nella classe A (terreni idonei alle produzioni agroalimentari) circa 101 ettari, pari al 67,4%. Nella classe D (terreni con divieto di produzioni agroalimentari e silvo-pastorali) poco meno di 9 ettari pari al 6,2%. 

In Campania la camorra ci ha messo il suo, no?

Che poi in Campania una parte dei fenomeni di tombamento di rifiuti pericolosi siano avvenuti ad opera di soggetti legati alla criminalità organizzata è un altro discorso. Ma qui bisogna vedere quante condanne ci sono state per disastro ambientale aggravato dal metodo o dalla agevolazione mafiosa. Io credo molto poche. Attenzione: la criminalità organizzata si combatte con le sentenze non con gli arresti. La camorra casalese ha iniziato a barcollare con le sentenze della metà degli anni 2000. 

I dati epidemiologici? Che dicono?

Per quanto riguarda il rapporto con la morbilità e la mortalità – ritenuta specialmente preoccupante per i bambini – la ricerca scientifica di istituzioni quale l’Istituto Superiore della Sanità non ha evidenziato alcuna correlazione causale. In particolare, è stato dimostrato che nella popolazione infantile della Campania – anche quelli residenti nei 90 comuni della “terra dei fuochi” – si ammalano e muoiono di tumore come tutti gli altri coetanei d’Italia.

Tuttavia, il triste fenomeno va combattuto. 

Certo, tutto questo non sminuisce la gravità delle cause che hanno portato alla definizione di “terra dei fuochi” e nulla tolgono alla necessità di interventi che, circoscritta con precisione l’area coinvolta, ne blocchino le coltivazioni e nei tempi necessari provvedano alla bonifica dei siti e alla contemporanea rinaturalizzazione. Per il resto della regione esente da questo tipo di problemi mi pare molto utile e intelligente l’obiettivo di Legambiente di trasformare la Campania dalla “terra dei fuochi” alla “terra dei cuochi”: un progetto per promuovere l’agricoltura di qualità e le sue trasformazioni eno-gastronomiche.

Abbiamo cominciato dicendo che il reato ambientale è il conflitto tra diritto, tecnologia e ambiente, bene la tecnologia e il diritto possono aiutare l’ambiente?

Il diritto e la tecnologia hanno un comune “vincolo di scopo” nei confronti dell’ambiente. Il diritto ha fornito un contributo importantissimo in questi anni, soprattutto in termini di sensibilità ambientale. Basti pensare che, nel 1997, in Italia, la raccolta differenziata viaggiava al di sotto del 9 %; nel 2015 è arrivata al 47%. E ciò grazie al decreto Ronchi, che ha cambiato per sempre la gestione della spazzatura nel nostro paese. La tecnologia, ancor più del diritto (sebbene il diritto sia anch’esso tecnica), può dare un contributo fondamentale alla tutela dell’ambiente. Ma su quest’ultimo aspetto, deve mutare il clima culturale; cambiamento che non può che iniziare sui banchi di scuola. 

In che senso? 

Bisognerebbe far capire che immaginare la tecnologia come strumento a salvaguardia dell’ambiente non significa solo tutelare le matrici ambientali, ma significa tutelare anche l’economia. Questo l’Italia non l’ha ancora ben compreso. Purtroppo, a causa della scarsità degli impianti di recupero, le discariche sono ancora centrali nel ciclo dei rifiuti. Per esempio, lo smaltimento del rifiuto organico (il cd. rifiuto umido) ha dei costi allucinanti perché, in assenza di impianti, i rifiuti organici sono trasferiti dalle regioni del Centro-Sud in aree spesso molto distanti da quelle di produzione o da quelle dei siti di trasferenza, con un aumento esponenziale dei costi di smaltimento connessi ai trasporti e ai centri di trattamento dove i rifiuti sono “in transito” prima di andare in impianto o in discarica. Io mi occupo di questa materia dal 2003: ebbene, lo scenario di fondo dei processi più delicati che ho seguito poggiava sul “turismo dei rifiuti”: più il rifiuto si muove, più il rischio reato è dietro l’angolo. 

Quindi la tecnologia è vista come nemica dell’ambiente?

Purtroppo sì. Gli slogan: “non nel mio giardino” e “non nel mio mandato elettorale” stanno facendo dei danni importanti, perché con i livelli di raccolta differenziata che abbiamo raggiunto e con impianti ben localizzati e ben collaudati, le regioni del Sud, soprattutto, potrebbero conseguire una duratura stabilità ambientale. Invece? Ho qui tra le mani un rapporto della Corte dei Conti che certifica che, dal 2012 al 2020, solo il 20% delle opere già finanziate per la gestione dei rifiuti è stata effettivamente realizzata. Il resto si è perso nei rivoli delle proteste territoriali. 

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