Tre domande su tre questioni agricole, sensibili e ricorrenti: la sostanza organica, i contadini di una volta, il futuro dell’agricoltura italiana. Rispondono due prof., Sergio Saia e Michele Sellitto e lo storico dell’agricoltura Alfonso Pascale.
Il microbioma del suolo è importante? Serve? (risponde Michele Sellitto)
Per capire quanto siano importanti dobbiamo prima parlare di sostanza organica. Possiamo dire che l’introduzione di sostanza organica innesca nel suolo due grandi fenomeni, l’umificazione e la mineralizzazione, che si contrappongono e che in alcuni casi possono anche equilibrarsi proprio regolando il flusso netto di anidride carbonica e metano nell’atmosfera. Più semplicemente, l’umificazione tende ad accumulare e ad arricchire il suolo di humus che si conserva nel tempo, e la mineralizzazione tende ad utilizzare nell’immediato le potenzialità della sostanza organica presente nel suolo rendendo disponibile alle piante i nutrienti in essa contenuti. In questa contrapposizione di forze, una che accumula e immagazzina e l’altra invece che degrada e utilizza immediatamente la sostanza organica, giocano un ruolo importante oltre alla struttura dei suoli anche il clima, la temperatura e la presenza o meno un determinato microbioma. È chiaro che in un’ottica di turnover della sostanza organica nel suolo (la quantità di carbonio che entra ed esce nel sistema suolo), i microrganismi giocano un ruolo importante concorrendo al sequestro del carbonio. Quindi è verosimile pensare che un corretto uso del microbioma del suolo possa contribuire alla riduzione delle emissioni di gas a effetto serra.
Parliamo un po’ di contadini meridionali? (risponde Alfonso Pascale)
Oggi il termine “contadino” è tornato in voga tra gruppi di giovani e meno giovani affascinati dal mito dell’agricoltura “di una volta”. Il motivo di questo revival è uno solo: si è cancellata la memoria delle tristi condizioni di vita dei contadini. Alla storia è subentrato il mito. Pasolini ha sicuramente contribuito più di altri esponenti della cultura italiana a creare una percezione sbagliata del passaggio dall’antico mondo contadino alla società industriale. Per lui la civiltà contadina aveva rappresentato l’età dell’oro. Mentre la modernità costituiva l’esito di una mutazione antropologica dei contadini. Essi erano emigrati nelle periferie delle grandi città. E il poeta li considerava ormai catturati da potenze oscure e contaminati dal consumismo. Insomma, una visione che univa antimodernismo, complottismo e moralismo e anticipava di quattro decenni i populismi odierni. E tutto questo solo perché, nella dieta e nel vestire e nei consumi medi sempre molto bassi in Italia rispetto all’Europa, gli italiani fuggiti con l’emigrazione di massa dalla miseria contadina, avevano cominciato ad assaporare un minimo di benessere, di eguaglianza sociale e di diritti democratici. Questa visione reazionaria e pauperistica è oggi rappresentata dall’ambientalismo radicale che persegue un integralismo naturalistico speculare all’integralismo antropologico. Una visione del tutto indifferente ai gravi problemi dell’umanità. Per questo è necessario continuare a polemizzare con alcuni aspetti del pasolinismo. In sintesi, Il diritto della natura al rispetto non si afferma abbassando la guardia sui diritti individuali. Non si tutela l’ambiente attribuendo personalità giuridica a fiumi e monti, come pure è accaduto, ma al contrario integrando uomo e natura all’interno dello stesso concetto di vita. È che manca ancora una storia sociale delle campagne italiane. Quando si scriverà questa storia si potrà chiarire che agricoltura e natura non sono mai coincise. Prendiamo I paesaggi agrari pianeggianti, sono in buona parte il risultato di un secolare lavorio di umane generazioni che le hanno strappate alle acque. Le pianure meridionali sono state letteralmente create con prosciugamenti, strade, abitazioni, opere di civiltà. Per secoli la malaria ha disegnato il profilo di gran parte della penisola, rappresentando uno dei pochi tratti comuni di un paese attraversato da differenze profonde. C’è voluto un enorme impegno di risorse pubbliche e private per riorganizzare il territorio e renderlo dappertutto vivibile. E oggi occorrerebbe continuare quel percorso con poderose politiche di difesa e manutenzione del suolo.
Come vedi l’agricoltura del futuro? (risponde Sergio Saia)
Futuro? Quantifichiamo. Facciamo 30 anni, che son già tanti. Non ho la sfera di cristallo, ma vedo nella UE l’unico spiraglio di speranza. La UE ha talvolta comportamenti apparentemente contrastanti: ad esempio sostiene di voler favorire il bio o ridurre i principi attivi di sintesi senza un supporto scientifico, ma, al contempo, la Corte di giustizia europea nel 2018 ha emesso una sentenza che potrebbe addirittura favorire gli OGM in Italia. In Europa le legislazioni sono abbastanza avanzate ma un po’ disomogenee, l’impatto ambientale per unità di prodotto è basso e perfino in riduzione, ma tali comportamenti rischiano di comportare maggiori impatti altrove. Spero nei prossimi 30 anni avvenga un maggior trasferimento di competenze dalle sedi nazionali a quella comunitaria e una maggiore armonizzazione dei sistemi, oltre che maggiori collaborazioni con i paesi-extraeuropei. Tutto ciò investirà pesantemente il settore agro-alimentare, che non per nulla è stato il primo normato in sede comunitaria: in pochi anni dovremmo dare da mangiare a 10 miliardi di persone, ridurre la denutrizione, evitare che l’impatto ambientale dell’agricoltura aumenti e fare tutto ciò salvaguardando il potere di acquisto di chi è ricco e aumentando quello dei poveri: trovare un unicorno alato è più semplice. Per fare tutto ciò, l’unica (purtroppo) via è l’istruzione, ricerca e sviluppo e ogni spazio dato a chi propala disinformazione riduce drasticamente le chance di successo.