Miriam Toews, autrice canadese, nel 2014 scrive il romanzo I miei piccoli dispiaceri (pluripremiato, portato in Italia nel 2015 da Marcos Y Marcos con la traduzione di Maurizia Balmelli) in cui racconta una vicenda famigliare personale, dolorosa, che ha a che fare con la vita e la morte. Più precisamente la storia raccontata ha a che fare con il legame che c’è tra il desiderio di vita e il desiderio di morte, laddove tra i due c’è un rapporto direttamente proporzionale. Chi vuole morire in questa storia non lo vuole perché ha poca vita o poca vitalità dentro, ma perché sembra averne troppa. Troppa cosa, precisamente? Parliamo di quello squilibrio della chimica che ha a che fa fare con quei su e giù dell’umore? I, purtroppo tipici, sbalzi della personalità bipolare, con un eccesso di energia e il desiderio di stra-vivere prima, e poi, improvvisamente, il tonfo nel buio, la caduta, l’assenza di energia e il desiderio di morte a seguire?
No, anche se la chimica ha sempre un ruolo fondante e fondamentale nel funzionamento del nostro cervello, e quindi lo avrà avuto anche in questa vicenda, questa storia non c’entra con questa dinamica, ma ha invece a che fare con lo sguardo sulla vita: chi desidera morire in questo libro ha occhi di spaventosa bellezza, grandi, chiarissimi e contornati da ciglia nerissime, lunghissime e indomabili. Due irresistibili occhi inquieti, che sin dalla tenera età sanno “vedere” tutto del mondo che guardano: la poesia, l’arte, la politica, la musica, le bugie, il dolore, le paure, la bellezza, le ingiustizie, le oppressioni, i desideri autentici. Tutto questo “è visto” e quindi inevitabilmente portato dentro e reso ingrediente della vita di chi possiede quegli occhi. Nella pancia della vita.
Cosa ne viene fuori? Intelligenza, estro e talento esplosivi ed esplosi, buttati fuori (come piacerebbe che fosse pure a noi tutti: non tensioni da liberare faticosamente, ma semplicemente libere).
Quindi un’esplosione di vita, irresistibile anche agli occhi di chi la guarda.
Il prezzo? L’esplosione è bellissima, di per sé spettacolare, non è un movimento come gli altri, non è quieto, non è incerto, non è mai aspettato, è impetuoso e rompe i muri, ma, ecco che succede: rompe anche le difese. I muri sono anche le nostre difese. Da questa ragazza esce tutto, in libertà, ma può entrare anche tutto, senza filtro. Una sensibilità eccezionale in uscita, e anche in entrata. Gli occhi, la capacità di “vedere” quando si guardano gli altri, il mondo, la vita che accade, generano la sensibilità, la cosa che fa la differenza. Cosa sarebbe la cultura senza sensibilità? Nozionismo. Sapere senza capire. Conoscere le cose senza comprendere il loro significato.
Il romanzo autobiografico di Miriam Toews contiene ovviamente di tutti gli elementi narrativi del caso: vari personaggi, i fatti, il punto di vista, la voce, l’intreccio.
Iniziamo con il dire che questi occhi finora descritti non sono della protagonista, ma in realtà in questo libro non è scontato dire chi sia la protagonista. Perché chi narra la storia (in prima persona) è sua sorella, che appunto è l’autrice stessa. Narratore e autore in questo caso coincidono. Ma in realtà sembra anche che la prima persona (l’autrice narratrice) narri una seconda persona (la sorella) che è il vero protagonista della storia (come accade ne Il Gande Gatsby). E questo non è solo un puntiglio tecnico, ma si rivela un carattere distintivo della poetica del libro, da non farsi sfuggire.
Gli altri personaggi sono i familiari: una famiglia numerosa, allegra, rumorosa, passionale, allargata, una famiglia piena di storie, tradizioni, tragedie, miti che si tramandano, il tutto condito da una straordinaria ironia, teatralità e un qualcosa di eroico e fiabesco, soprattutto nelle donne, come nelle migliori tradizioni sud americane, ma qui siamo in Canada, in una comunità mennonita di stampo patriarcale, e i rumori che si sentono alla finestra sono quelli inquietanti del ghiaccio del fiume che, giorno dopo giorno, pezzo dopo pezzo, si spacca con l’arrivo del sole.
Cosa ha di speciale questo libro? Va definita la poetica:
C’è un senso di ambivalenza, qualcosa che sembra non poter stare insieme e invece sta insieme. Questo caratterizza tutto il libro.
Desiderio di morte direttamente proporzionale al desiderio di vita.
Un senso di fluido, di instabile, che si percepisce nel punto di vista: il centro che sembra spostarsi, la protagonista che sembra prima una poi l’altra delle due sorelle.
La voce è ironica e drammatica allo stesso tempo, a tal punto che ci si chiede come si può essere ironici, allegri, di fronte a una tragedia famigliare che si perpetua anche tra generazioni.
Il sentimento viene messo in pagina con una tecnica narratologica puntuale, impeccabile, dall’inizio alla fine del libro: creazione di un contesto, poi lo spiazzamento; la ricostruzione a ritroso e frammentata della memoria, lo svelamento progressivo dei fatti ma in una struttura ad alveare, dove in ogni passaggio ci si ferma dentro altre storie, tante piccole grandi storie con i loro dettagli e bellezze, e alla fine si tirano tutti i fili e tutto torna, ma si fa fatica a uscirne fuori, il lettore rimane con quella sinfonia intorno anche se il concerto è finito.
Un connubio, un montaggio di elementi distanti, talmente perfetto da lasciare storditi, sollevare domande, e volendo anche qualche dubbio, su come la tecnica possa essere messa in pagina, in musica, quando il sentimento è così forte e drammatico. Quale migliore miraggio, quale migliore meta per uno scrittore? È il massimo in effetti.
Tuttavia quando qualcosa suona così perfetto, stona, per fortuna.
Il libro si chiude confondendo la realtà con il sogno, ed è questo forse il cedimento della narrazione perfetta, un’ulteriore, bellissima, incontrollabile ambivalenza della vita.