Ovvero: perché in qualità di tecnico ricevo delle telefonate notturne di amici che hanno scoperto scarafaggi in casa e mi chiedono potentissimi (e poco naturali) veleni per distruggerli all’istante (incuranti della persistenza del veleno) e poi gli stessi, la mattina, dopo, a infestazione risolta, mi chiedono se un prodotto comprato al supermercato è libero da agrofarmaci, o se insomma sono stati usati prodotti naturali?
Come cambia il concetto di naturale quando siamo produttori (e vogliamo proteggere un ambiente, la nostra casa o un prodotto, una pianta sul balcone) e quando invece siamo consumatori (e vogliamo mangiare e proteggere la nostra salute)?
Il dilemma della natura: le piante e i loro prodotti piacciono a noi e pure agli insetti e ai patogeni, siamo in serrata competizione, da millenni. Se mangiano di più i patogeni, mangiamo meno noi (e cresciamo di meno).
In effetti, per millenni il paese di Pinocchio ha avuto la meglio (e l’altezza è rimasta stabile) anche perché non si conosceva il modo per uccidere i patogeni: le carestie erano di moda (anche le guerre), la fatica tanta (già allora si rimpiangeva un’età dell’oro), la produzione costantemente bassa: ricordiamo che la resa media dei cereali è rimasta invariata, attorno a una tonnellata, per millenni, è cresciuta solo nella seconda metà del Novecento.
Difatti solo nell’ultimo secolo (con grande fatica) proteggendo le piante da patogeni siamo riusciti anche a proteggere i raccolti dalle millenarie oscillazioni in su e in giù.
Ora domanda? Dato per scontato che gli agrofarmaci non ci piacciono (e la vocina, anche di alcuni politici, ci dice, usate acqua e sapone o aceto), possiamo non usarli? Oppure, esiste modo per usarli di meno e meglio? Lo si sta già facendo? Quali sono i numeri? Dai, chiediamo…
Prima cosa: si possono non usare?
Come dimostrato da stime della FAO, la produzione agricola mondiale calerebbe del trenta per cento senza interventi di difesa. È per questo che tutti gli agricoltori (anche quelli che fanno agricoltura biologica) devono usare insetticidi (Mauro Mandrioli Professore Associato in Genetica all’Università di Modena e Reggio Emilia).
Quanti ne usiamo?
L’uso dei cosiddetti “pesticidi” qui in Italia è in forte contrazione dal 1990. Grazie allo sviluppo di nuove tecniche e tecnologie, disciplinari di produzione, investimenti in ricerca, soprattutto privati, e una revisione fin troppo severa di ciò che usavamo negli anni del boom agrochimico, ovvero i ’70 e gli ’80. Le tonnellate dei formulati commerciali sono calate del 38,5% e del 43,7% quelle delle sostanze attive impiegate, cioè quelle che di fatto combattono patogeni, malerbe e parassiti. I soli insetticidi sono calati del 57%, un’enormità. Questo perché rispetto al 1990, nel volgere di pochi anni, il 67% delle molecole impiegate è uscito dal mercato, in quanto obsoleto e non più in linea con i nuovi criteri autorizzativi, molto più stringenti rispetto ai precedenti. Detta in breve, solo il 26% delle molecole che usavamo in passato è sopravvissuta al vaglio normativo. Fatti i conti le molecole ingerite pro-capite si possono stimare oggi, mediamente, in alcune decine di milligrammi l’anno, pari a circa un centinaio di microgrammi al giorno. A titolo di paragone, come ricorda Bruce Ames, uno dei padri della tossicologia moderna, nel caffè è stato individuato circa un migliaio di sostanze chimiche differenti. Di queste, al 1994, solo 22 erano state testate su cavie per la cancerogenesi: ben 17 sono poi risultate cancerogene. In una sola tazza di caffè, ricorda sempre Ames, ci sono almeno dieci milligrammi di molecole cancerogene naturali. In una sola (si ripete: una sola) tazzina di caffè (Donatello Sandroni, eco tossicologo).
Esiste modo per usarli di meno e meglio?
Non c’è dubbio che i progressi fatti negli ultimi 40 anni sono enormi, si è passati da piani di lotta ampiamente basati sull’uso del mezzo chimico a strategie d’intervento più mirate e sostenibili, che utilizzano in modo crescente gli antagonisti naturali (insetti che si mangiano altri insetti), biotecnici, piante resistenti o tolleranti e, negli ultimi decenni, anche alle biotecnologie. In ogni caso, lo scopo è quello di essere quanto più selettivi possibile: colpire l’organismo dannoso, limitando al minimo, se non evitando completamente, i danni su tutti gli altri organismi non-bersaglio e sull’ambiente. Questo è un principio generale che mira a preservare quanto più è possibile la biodiversità e la maggiore stabilità degli agroecosistemi che da essa deriva (Franco Pennacchio, professore ordinario di Entomologia presso il Dipartimento di Agraria dell’Università di Napoli Federico II).