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Home L'intervista

Come stiamo messi con l’olivo? Tre domande all’oleologo Luigi Caricato

da Antonio Pascale
07/03/2023
in L'intervista
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Pregi dell’olivicoltura italiana?

A sentire gli italiani esistono solo pregi, vince il made in Italy su tutti. Non è così, oggi si scopre che tutte le olivicolture giocano alla pari e si impongono all’attenzione. È una nuova epoca e se noi abbiamo avuto un passato glorioso non è detto che si possa vivere sempre di rendita. Non è per smontare una narrazione, come si dice oggi, ma di fatto è così: i pregi dell’olivicoltura italiana sono diventati nel frattempo una debolezza. Partiamo dalla grande biodiversità. C’è effettivamente da vantarsi, ma fino a un certo punto. Che cura si ha di questo patrimonio varietale di 538 cultivar censite? Quanti campi collezione ci sono? Che cosa si fa per proteggere questo vasto e variegato germoplasma. E poi, si conservano davvero bene, o sappiamo solo che esistono 538 cultivar dimenticandoci in realtà di valorizzare questi olivigni? Ciò che è certo è che queste varietà di olivo non vengono studiate, non si sperimenta, non si cerca di capire quante di queste cultivar sono da migliorare geneticamente perché si adattano a nuovi criteri agronomici, anche in vista del mutamento climatico. Quanti di questi olivigni si adattano all’alta densità. Eccetera, eccetera. Ci vantiamo di possedere tante varietà, ma poi sul campo quante sono davvero coltivate, e in che percentuale? Il mondo della ricerca c’è, mancano chi finanzia la ricerca. Mancano anche imprenditori coraggiosi che investano. Si attende sempre che la mamma Stato provveda, ma non si investe mettendo mano al portafogli. Comunque, alla fine sembro quasi un rompiscatole. Mi viene chiesto sui pregi e metto in luce solo le mancanze. Ma si può parlare in linea teorica di pregi potenziali se poi questi pregi non hanno un riscontro sostanziale? In ogni caso, i pregi sono tanti. È vero. Sì, ma quali sono? Ah, sì: il made in Italy. Cos’è poi il made in Italy se si è fermi da molti decenni e il tasso di abbandono della coltivazione è sempre crescente? Non voglio smontare l’Italia olivicola, ma è ora che ci si svegli. Occorrono pregi proiettati nel futuro, non pregi decantati, ma irrealistici. Non siamo con un piede in una fossa, ma se non si piantano olivi, se non si investe in nuove cultivar non c’è futuro. La superficie olivetata non ci consente di essere autosufficienti. Cosa si fa per incrementare tale superficie? Perché, come la Spagna, ma anche altri Paesi non si investe coltivando olivi fuori dall’Italia? O dobbiamo forse rassegnarci?

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Difetti?

Macché difetti. Il made in Italy vince su tutto. Siamo i migliori al mondo. O forse no? Siamo gli unici a non piantare olivi. Lo fanno tutti. Perfino Cina, Giappone, Pakistan, India, e altri e altri ancora. C’è una ottusità incorreggibile. C’è un rifiuto della modernità e un sentimento antiscientifico pauroso. No a piante transgeniche, non all’alta densità, no a cultivar straniere. Si arriva al paradosso di accusare i grandi marchi di fare un olio industriale e non artigianale: Già, evviva ciò che è piccolo, evviva l’olio del contadino che sussurra valle olive. Già abbiamo meno del 5% di aziende olivicole a carattere professionale. Abbiamo una superficie media olivetata inferiore all’ettaro. Dove vogliamo andare? Con quale logica l’olio imbottigliato dalle grandi aziende viene giudicano pessimo, scadente, quindi industriale, se poi, alla fine, questi grandi marchi acquistano l’olio prodotto da olivicoltori e frantoiani, visto che quasi la totalità di queste aziende non produce ma seleziona, acquista e vende l’olio prodotto da olivicoltori e frantoiani. Cosa succede? Nel momento in cui quest’olio passa di proprietà diventa industriale e perciò da denigrare?

Su cosa puntare?

Io punterei sulla scelta di un buon psicologo. É un problema di testa, di convincimenti sbagliati sul piano della logica. C’è troppa ideologia, troppa confusione, troppa improvvisazione. In ogni caso sono ottimista. È che stiamo attraversando un periodo di crisi, non ci sono più i tempi d’oro. Basta solo esaminare lo stato del mercato. I grandi marchi oleari italiani sono nati sul finire dell’Ottocento. Poi dopo il secondo conflitto mondiale. Poi nulla più, le nuove aziende nascono senza raggiungere la fama e i numeri delle imprese che hanno conosciuto la stagione d’oro. Si tratta di rimettersi in cammino con un nuovo modo di affrontare la realtà. Sono ottimista perché so che la storia insegna che ci sono avanzamenti e arretramenti. Prima o poi si tornerà in una nuova stagione d’oro. Ne sono certo, anzi certissimo. O forse no, ho qualche dubbio.

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