Qui di seguito elencati, in ordine sparso, una serie di rimedi naturali, appositamente stilati (nell’aprile del 2020, dalla rivista The Purist) per contrastare l’ormai nota pandemia: bevanda per la pulizia del fegato, a base di spicchio d’aglio crudo, un’arancia, un limone, un cucchiaio di pepe di Cayenna, un cucchiaio di olio d’oliva, zenzero fresco e un pezzo di curcuma fresca. Poi, Zinco, Vitamina B, Vitamina D, due fiori medicinali: xanthium e magnolia, acido folico, zinco, selenio, glutatione e caffeina e last but not least: bagno con acqua e candeggina. Dimenticavo: cibo ayurvedico e meditazione Pranayama.
Possiamo ridere o meno di questa lista, ma se davanti a noi abbiamo, diciamo così, da una parte la suddetta bevanda per la pulizia del fegato e dall’altra un medicinale convenzionale col suo bugiardino di tre pagine, che siamo o non siamo razionali, sentiremo sempre una vocina interiore che ci suggerisce: meglio la bevanda naturale e certo, anche il bagno con la candeggina.
Il naturale piace, ci seduce, e a leggere la lista di cui sopra, sembra una fusione tra pratiche non occidentali e rimedi casarecci.
Alan Jay Levinovitz ci fa notare che il (concetto di) naturale – di una volta era meglio, cioè, era diverso. All’inizio, ai tempi dei nostri cari greci, la medicina naturale identificava un metodo di indagine che escludeva il soprannaturale. Insomma, le malattie non le mandano gli Dei, ma hanno cause naturali (sostenevano i medici di quel tempo), lo studio della natura era necessario per identificare e sconfiggere la malattia.
Ora, invece, naturale è più vicino al soprannaturale. Il fatto è che ogni volta che subiamo un dolore (una malattia, un trauma), siamo portati a chiederci: a) perché proprio a me? E subito dopo: b) cosa si può fare? La risposta onesta alla prima domanda è: non lo sappiamo (siamo sotto la contingenza del caos e di variabili che non controlliamo a dovere).
La risposta alla seconda domanda, spesso ci risulta insoddisfacente, vogliamo guarire al più presto. E poi, il dolore, la malattia ci fa a pezzi, dunque, ci sentiamo traditi dal nostro stesso corpo e siamo allora portati a credere nel soprannaturale, ovvero qualunque cosa che ci regali (velocemente) una sensazione di armonia, di appartenenza, di integrità.
Siccome abbiamo tutti dei disagi, problemi e altro, ci sentiamo a pezzi, ecco che quella vocina: fatti un bagno con la candeggina.
In agricoltura peggio che mai, il naturale è tanto di moda. Perché il cibo di per sé ci rimanda alle dimensioni sacrali di puro o impuro, facile dunque sentire (rafforzata) quella voce interiore.
E tuttavia l’agricoltura è una delle pratiche più innaturali in circolazione, in effetti è una millenaria testimonianza della nostra lotta per sfuggire alle ristrettezze della natura. Basta guardare quei format dove due persone devono passare 15 giorni in un luogo non ospitale e sopravvivere. I due, capiscono subito che se dovessero limitarsi solo a raccogliere ciò che madre natura produce, beh, presto sarebbero guai. Se invece di 15 giorni dovessero restare nella natura per un anno, ci scommetto, comincerebbero a coltivare la prima pianta utile.
L’agricoltura è una pratica culturale attraverso la quale cerchiamo di trasformare (con enorme fatica) una natura non ospitale in un’altra più ospitale. Fare i conti con questo concetto non è facile.
Ma proviamoci. Facciamo i conti con quella soprannaturale vocina interiore e nello stesso tempo indaghiamo su come funziona davvero l’agricoltura: cosa esige, cosa ci restituisce, cosa danneggia.