Ricordo la “faraona alla panna” e la “fettina di vitello al burro”.
Suscitano in me sensazioni ugualmente intense ma opposte, contrastanti: il buono e il cattivo, il paradiso e l’inferno, la gioia e la tristezza, l’amore e l’odio. Era sempre la mia mamma a prepararmele, e non dubito che avesse in mente solo il mio bene nel cucinarle, ma com’erano diversi gli effetti che sortivano dentro di me… effetti che, probabilmente, hanno in qualche modo contribuito a indirizzare anche professionalmente il mio rapporto con il cibo da adulto.
La faraona alla panna era il paradiso, ovvero amore allo stato puro: la mangiavamo solo a Natale e aveva il sapore dei regali, ma ancora di più dell’affetto dei nonni, del papà, dei miei fratelli, e naturalmente della mamma che ora non è più in grado di cucinarla. E poi il nome “faraona”: sapeva di nobile, di cibo da re, rimandava all’antico Egitto che studiavo alle elementari (allora si chiamavano così). Con la panna poi…
All’opposto, la “fettina di vitello” per me incarnava (e in effetti di carne sempre si trattava) la mortificazione del piacere: il dovere di nutrirsi, contrapposto al gusto di mangiare.