Regista, sceneggiatrice, scrittrice (Dell’amore ed altri disturbi, da poco edito da Castelvecchi), Barbara Rossi Prudente insegna anche Tecnologie multimediali. Siccome ha un osservatorio privilegiato sugli adolescenti abbiamo fatto due chiacchiere. Questa è la sua lezione privata
Cosa insegni?
Insegno Tecnologie multimediali in una scuola secondaria di secondo grado, osservo i ragazzi dalla cattedra, posizione privilegiata perché centrale, ma spesso anche acquattata negli angoli dei corridoi, dove divento quasi invisibile, godendo di una visione meno condizionata.
Che vedi?
Come mi sembrano? Domanda molto difficile perché si rischia di generalizzare. Premesso che posso parlare per alcuni ma non per tutti, partirei dalla comunicazione, verbale e fisica.
Giusto, per grandi numeri
Riguardo alla prima, direi che gli adolescenti parlano mediamente male. Usano una lingua povera, distratta, ridotta a strumento essenziale. Barcollano tra modi e tempi verbali che non sempre sanno riconoscere, spesso si limitano all’indicativo; maneggiano un numero appena sufficiente di vocaboli, e neppure in modo troppo preciso. Alcune sfumature lessicali talvolta nascono da opinioni personali o da un uso improprio e reiterato che, di una certa parola, se ne fa tra amici o in famiglie in cui si legge poco. Al massimo ci si intrattiene con la lettura delle notifiche sul cellulare.
Si legge poco perché?
Non si legge perché è faticoso, perché le parole sono difficili da capire, perché i libri sono grossi, perché richiedono tempo e attenzione prolungata. L’attenzione prolungata inorridisce gli adolescenti, residenti digitali che vivono nel tempo lampo della rete. L’impoverimento della lingua però non preclude la comunicazione, che trova strade alternative attraverso l’uso di termini della sottocultura dialettale. I ragazzi prediligono il linguaggio gergale, quello fatto di parole che capiscono solo loro, che li rende gruppo. Le parolacce sono sdoganate e di uso comune, alternate a frasi glicemiche, estrapolate da versi di canzoni neomelodiche.
La canzone come libro di testo?
La canzone diventa veicolo non solo d’amore ma di minaccia, rabbia e vendetta. Il rap incalza, fa tremare i vetri alle finestre e riga di nero l’asfalto delle strade, non più con le sgommate dei motorini, ma con le frenate delle macchine lussuose, esibite dai rapper partenopei, al pari dei loro fratelli della periferia americana. Parole e tremori. Parole e rabbia. Parole e guerra, in maniera semplice, senza stare a pensare … accussì come ci viene professore’.
Più veloce è meglio viene?
Sì, la comunicazione veloce si realizza anche attraverso l’uso di espressioni straniere, divulgate da influencer o TikToker. Parole di cui si subisce il fascino dell’internazionalità, poco importa che, ripetute dai ragazzi, gli accenti diventino casuali, le parole si tronchino a piacimento con elisioni di fortuna. Spesso i vocaboli stranieri si italianizzano ( mi viene in mente ghostare, cringiare, chattare, bannare, cappare) o si abbreviano in acronimi ( Pov, Pk, Nn, Idk, Btw), fino ad arrivare al massimo della sintesi, sostituendo un’intera espressione con una sola lettera. La F, per esempio, si digita per mostrare vicinanza e tristezza. “Questo vestito mi sta davvero male” . La risposta sarà “F” che sta per “Mi dispiace, ti sono vicino”.
Ok, la comunicazione è anche fisica?
Per la comunicazione fisica la faccenda cambia. I ragazzi hanno comportamenti contrastanti. In situazioni collettive tendono a essere prossimi, a starsene vicini, a formare gruppo. Nelle situazioni in cui la conversazione si limita a un numero ristretto o all’uno a uno, gli adolescenti sono ben attenti a mantenere una certa distanza tra loro, dal compagno/a di banco, come se ci fosse un muro invisibile a proteggerli. Per parlarsi allungano la testa, attenti a non invadere lo spazio altrui anche col corpo.
Motivo?
Mi sono chiesta se il motivo non sia determinato anche dalle angosce causate dal covid, dalle raccomandazioni a non toccare nulla e nessuno, dalla convinzione indotta che l’altro possa rappresentare un pericolo al solo contatto. Il pericolo io lo ravviso piuttosto nella riservatezza dietro la quale gli adolescenti si proteggono, nelle loro confidenze che fioriscono timide. L’intimità fatica ad annidarsi. Sarà forse perché i segreti rischiano di essere condivisi al cubo attraverso un solo click? Una storia, un tag o una foto che viaggia in rete nel momento sbagliato, in maniera scorretta, può provocare tonfi. L’autostima e la rispettabilità può sbriciolarsi e crollare, come accade ai palazzi di The Inception di Cristopher Nolan.
Insomma, torniamo alla rete?
La rete toglie, la rete offre, la rete educa. La generazione z è attenta a non trasmettere messaggi espliciti di natura sessista, omofoba o di body shaming. Per quelli che, invece, proprio non ce la fanno e vogliono dire le cattiverie mamma social offre la soluzione. Possiamo dire Ricky one per Ricchione oppure Acustico per Autistico. Nonostante gi universi paralleli e le identità virtuali, i ragazzi si dichiarano ancora interessati a fare l’esperienza dell’altro nella vita reale, ma con riserva. Senza l’urgenza di fare domande. Sulla famiglia, sul quotidiano, sui rapporti amorosi, sulle sessualità liquide. Per disinteresse? Per paura del giudizio? Per paura di essere inopportuni? Per paura di non essere all’altezza?
Risposta secondo te?
Per paura. E di paura hanno anche fame. Non è un caso che gli adolescenti amino i film horror, al di là della storia raccontata (quasi sempre la stessa, condita con mille salse diverse) e della tipologia del mostro protagonista (umano, umanoide, animale, bambole animate, presenze diaboliche, spiriti inquieti, il vicino, un familiare…). La ragione potrebbe essere ricercata nel fatto che un horror offre l’opportunità di fare l’esperienza della paura in sicurezza. La paura come scorciatoia per conoscersi meglio, per mettere alla prova il proprio limite e oltrepassarlo. Durante la visione lo schermo divide l’umano e l’aberrante, li separa. Il mostruoso non può fuoriuscire dalla finzione per piombare nel reale. I due mondi non sono comunicanti. Tale certezza permette il depotenziamento della paura e il controllo del pericolo, attivando il piacere dell’esorcizzazione. In sintesi, lo spettatore gode di una lussuosa esperienza adrenalinica ad altissima tensione, senza pagare (apparentemente) nessuna conseguenza. Quell’adrenalina che manca nel reale, nel quotidiano ordinario intorno al quale si costruisce il nostro nebbioso presente.
Tu insegni cinema…
E appunto, Insegnando cinema, quando entro in classe, ho i brividi al solo pensiero che i miei studenti possano chiedermi se ho guardato tale insuperabile ultimissimo capolavoro horror, tale terrificante serie tv o raccapriccianti mini-fiction che circuitano nella rete e che loro le guardano tutte, proprio tutte.
La paura è, comunque, un argomento ampio che non può essere liquidato in poche righe. Un’altra riflessione meriterebbe l’analisi del rapporto tra l’immagine reale e quella idealizzata che un adolescente ha di sé.
Cioè?
L’ideale che tradisce il reale in rete, attraverso la proposta di volti e corpi inarrivabili, possibili grazie a semplici conoscenze tecnologiche o all’uso di filtri destinati a un pubblico consumer. Giocattoli per ragazzi, usato anche da madri e padri. Per tale argomento, che pur meriterebbe un approfondimento, propongo ai miei ragazzi Lo studente di Praga, film muto, tedesco, di Stellan Rey del 1913, in cui il rischio del doppio risaltava, già allora, con preoccupantissima evidenza. Scelta doverosa per sembrare un po’ colta e non dover confessare che anch’io ho paura, che non guardo film horror dopo lo shock de L’esorcista, subìto da ragazzina. E poi un film muto tedesco, che contiene anche la parola Praga nel titolo, mi fa sembrare subito professionale, distante e inarrivabile. Figa assai, direbbero loro.