Proteine: che fare? Sono un problema. Siamo in tanti ad averne abbiamo bisogno, e questo significa anche tanti conflitti.
I dati mostrano una forte correlazione positiva tra il PIL pro capite di un paese e la quantità di carne che il cittadino medio consuma in un anno. Collettivamente, mangiamo tre volte la carne che mangiavamo solo 50 anni fa. Grazie all’allevamento intensivo del bestiame, ora siamo in grado di produrre carne a costi incredibilmente bassi. Il consumo di carne è raddoppiato nell’arco di due o tre decenni, anche in paesi come Cina e Brasile. Per molti, mangiare più carne significa migliorare la sicurezza alimentare e lo stato nutrizionale.
Qui cominciano i conflitti: il troppo storpia. Le flatulenze dei bovini avvolgono il nostro pianeta di metano (uno dei gas clima alteranti). Aggiungiamo poi che il consumo eccesivo di carne (ci sono linee guide che regolano il consumo di carne e che vengono continuamente disattese) non fa bene – soprattutto quella rossa e trasformata, e ci espone a maggiori rischi per varie malattie legate allo stile di vita.
Dunque, c’è una forte spinta a trovare nuovi modi per nutrire miliardi di stomaci bisognosi di proteine senza far eccessivi danni. Visto che l’area di terra coltivabile a nostra disposizione rimane limitata, gli scienziati consigliano agli opinion maker di rivolgere la loro attenzione ai cibi blu: animali, piante e alghe raccolte da ambienti acquatici naturali e artificiali.
Ora, fino agli anni ’70, la pesca selvaggia forniva al mondo quasi la totalità di cibo blu. Fu negli anni ’80, quando la raccolta del pesce selvatico raggiunse il plateau, e dunque oltre al serio esaurimento degli stock ittici anche a gravi perturbazioni degli ecosistemi marini, insomma fu allora che si cominciò a pensare ad altri modi per procurarsi alimenti acquatici.
I pesci che una volta venivano catturati con facilità stanno diventando sfuggenti, in pericolo e, in alcuni casi, prossimi all’estinzione. Inoltre, la scarsità spinge i pescatori ad andare a guardare più in profondità nel mare ed entrare in conflitto tra loro. Ancora si sente l’eco di alcune guerre tra pescatori: quelle del merluzzo tra Regno Unito e Islanda degli anni ’50 e ’70, la disputa dell’ombrina gialla tra Cina e Giappone negli anni ’20 e ’30 e la guerra del rombo chiodato tra Canada e Spagna del 1995.
Vista la situazione, il principale candidato fu l’acquacoltura commerciale su larga scala. Sulla carta è un metodo più sostenibile. Motivo? I pesci sono animali a sangue freddo, quindi non usano l’energia ottenuta dal loro cibo per mantenere i loro corpi caldi. Ciò significa più carne per unità di mangime rispetto al bestiame terrestre a sangue caldo.
La tecnologia poi è dalla nostra parte ed è in rapido progresso, difatti siamo diventati così bravi con l’acquacoltura che nel 2014, i prodotti dell’acquacoltura hanno avuto la meglio sul pescato: più della metà viene da allevamenti.
Comunque, vediamo all’analisi, affrontiamo la pars construens: i problemi di sostenibilità dell’acquacoltura sono meno complessi e più risolvibili di quelli del bestiame. L’acquacoltura è diventata popolare per i numerosi vantaggi commerciali che offre. Selezionando solo le specie più robuste, eliminando i rischi dei predatori gli acquacoltori sono capaci di produrre cibo blu di alta qualità a un costo inferiore rispetto alla pesca selvatica.
A proposito di guerra tra pescatori di cui ancora si sente l’eco: un maggiore controllo sul processo di produzione e diritti più chiari sui prodotti raccolti assicurano anche maggiori profitti e minori controversie geopolitiche. Il successo dell’acquacoltura non solo ha inondato i mercati tradizionalmente consumatori di pesce con una fornitura per tutto l’anno di alimenti acquatici a prezzi accessibili, ma ha anche creato nuovi mercati in regioni in cui questi alimenti non erano sempre popolari. Accanto a pesci come carpe, pesci gatto, salmoni, trote e tonni, vengono allevate anche altra flora e fauna acquatica. Stanno proliferando sistemi specializzati che coltivano molluschi come ostriche, vongole, cozze e abalone e varie specie di gamberi. C’è anche un crescente interesse per l’allevamento di granchi, aragoste e altri animali invertebrati, come ricci di mare e cetrioli di mare.
Tutto bene quindi, la pesca diventerà un vago ricordo? Qui comincia la pars destruens. È veramente improbabile che la pesca venga sostituita dall’acquacoltura nel prossimo futuro: in fondo è un tipo di caccia vecchio quanto l’umanità. Oltre a fornire un sostentamento ricco di proteine e micronutrienti, la pesca è una fonte di sostentamento per milioni di persone in tutto il mondo. Le Nazioni Unite stimano che circa 120 milioni di persone siano direttamente e indirettamente impegnate nella pesca di catture selvatiche, rispetto ai 15 milioni nell’acquacoltura.
Le creature acquatiche d’allevamento, poi, prosperano solo quando la loro dieta è ricca di tutti i nutrienti essenziali. Spesso onnivori, questi animali si nutrono di piante e animali più piccoli dei loro ecosistemi naturali. Gli allevamenti di acquacoltura prosperi in tutto il mondo sono supportati da attività di pesca in natura che raccolgono specie di pesce utilizzati come foraggio. Acciughe, aringhe, sgombri e sardine, vengono trasformati in farina di pesce e olio di pesce. Problema: una parte considerevole di questi pesci sono pescati nelle acque dei paesi in via di sviluppo, dove costituiscono un’importante fonte di sostentamento per le popolazioni locali. I prodotti finali dell’acquacoltura, in particolare le varietà premium, vengono spesso esportati nei paesi più ricchi. Questo, in sintesi, si traduce nella rimozione di proteine e micronutrienti da molte regioni a rischio alimentare.
C’è una soluzione? Sì, perché per fortuna, la maggior parte delle creature acquatiche non sono schizzinosi. Ciò significa che, con un po’ di ingegno, è possibile ridurre la loro dipendenza dalla farina e dall’olio di pesce. Come altri onnivori come maiali e polli, molte specie di pesci possono essere allevate con gli avanzi della catena alimentare umana.
Anche le microalghe e gli insetti marini ricchi di nutrienti sono ottime opzioni. Piante terrestri coltivate in modo sostenibile come la soia, progettate per ridurre i componenti antinutrizionali, possono anche sostituire con successo almeno una parte della farina e dell’olio di pesce nei mangimi. L’innovazione nell’alimentazione acquatica potrebbe potenzialmente separare l’acquacoltura dalla pesca selvatica e fornire percorsi per espandere l’agricoltura alimentare blu in modo sostenibile.
Altro problema: le condizioni di lavoro soprattutto in Asia: il 92 % della produzione totale è proveniente dall’Asia. Da una parte, la prosperità che l’acquacoltura ha portato nel continente è spesso utilizzata come parametro per misurare il suo potenziale economico, dall’altra quando indaghiamo su come fanno gli acquacoltori asiatici a vendere a prezzi così bassi (realizzando profitti alti), dobbiamo per forza affrontare il problema delle pessime condizioni di lavoro. Naturalmente, anche la tecnologia e la conoscenza rendono il sistema efficace, ma è sulle spalle dei lavoratori della produzione primaria sottopagati e oberati di lavoro che l’industria ha scalato le vette del successo commerciale. I pionieri della rivoluzione blu sono stati così impegnati a superare le sfide tecniche e biologiche che l’impatto sociale della produzione di cibo, in questo modo, è rimasto in gran parte irrisolto.
In Asia i lavoratori precari appartenenti a comunità emarginate costituiscono un’ampia percentuale dei lavoratori dell’acquacoltura. Ciò include donne, bambini, indigeni e lavoratori migranti. Prendendo in prestito dalle peggiori pratiche dell’industria della pesca selvatica, i lavoratori dell’acquacoltura sono sistematicamente costretti alla schiavitù per debiti, discriminati, negati i diritti di associazione e impiegati in strutture prive di adeguati standard di sicurezza e salute sul lavoro. La segnalazione, e quindi la statistica, di infortuni e malattie tra i lavoratori è una rarità nel settore ma, da quanto poco è disponibile attraverso i registri giornalistici e investigativi, sappiamo che i disturbi muscolo-scheletrici, le infezioni della pelle e le malattie respiratorie dilagano.
Come molte altre aree del sistema alimentare, l’unico modo per creare condizioni migliori per i lavoratori dell’acquacoltura è attraverso una regolamentazione più severa: sia pubblico che privato. I governi di paesi come Cina, Indonesia, India e Vietnam, dove la rivoluzione blu è fiorente, devono fare di più per proteggere i diritti dei lavoratori. Gli acquirenti con una grande forza di mercato devono richiedere audit e certificazioni di sostenibilità sociale ai produttori. L’industria al momento è sufficientemente radicata perché i suoi custodi possano andare oltre gli ostacoli biotecnici e investire nella creazione di catene di approvvigionamento eticamente sane.
I sistemi di produzione acquatica non sono una panacea per tutti i nostri problemi di sicurezza alimentare e sostenibilità. Sono carichi di problemi etici e pratici e hanno bisogno di un lavoro considerevole per essere sostenibili a lungo termine. Eppure, presentano molte promesse per quanto riguarda il miglioramento della sicurezza alimentare di fronte al cambiamento climatico. Uno studio del 2020 che esplora il futuro del cibo dal mare conclude che, poiché gli alimenti acquatici sono diversi dal punto di vista nutrizionale ed evitano molti degli oneri ambientali dei prodotti terrestri produzione alimentare, sono in una posizione unica per contribuire alla futura sicurezza alimentare e nutrizionale globale.
In particolare, sottolinea il ruolo in questo sforzo della maricoltura: l’allevamento di alimenti acquatici in una sezione isolata del mare. Raccomanda inoltre di produrre più bivalvi a basso impatto, come cozze, vongole e ostriche, per soddisfare in modo sostenibile la crescente domanda di proteine. Ma la grande domanda è: siamo noi, come consumatori, pronti affinché i nostri piatti diventino più blu nel prossimo futuro?
Infine, anche piazzare sul mercato un buon assortimento di cibi blu è essenziale. Per evitare di replicare i danni inflitti dalle monocolture ai nostri ecosistemi terrestri, l’acquacoltura deve sforzarsi di mantenere la diversità dei sistemi acquatici. Ciò significa che non possiamo mangiare tutti filetti di salmone e bistecche di tonno. Affinché i cibi blu possano davvero fare la differenza, dobbiamo essere disposti ad ampliare notevolmente i nostri orizzonti gastronomici e dare una possibilità ai nuovi alimenti.