È vero, noi occidentali abbiamo il vecchio e caro mito di fondazione, i nostri due progenitori cacciati dal paradiso terrestre, buttati giù nudi e pieni di vergogna.
Ma per esempio i Sumeri, 2100 anni fa prima di Cristo? Che pensavano del rapporto tra natura e civiltà?
I sumeri (un popolo raffinato, alfabetizzato e urbanizzato) avevano scritto l’epopea di Gilgames. L’epopea di apre con Enkidu, bello come un dio, rude e selvaggio (corre libero con le bestie in armonia con la natura) incontra una donna bellissima Samkhat. Si amano per sei giorni e sei notti e alla fine Enkidu torna nella natura ma sorpresa: la sua forza è diminuita, le bestie lo sfuggono e per la prima volta avverte la solitudine.
Allora torna da Samkhat e lei gli racconta della città dove abita, lì – dice- gli uomini usano il cervello e non solo i muscoli. Vieni – gli dice- la città si chiama Uruk. Enkidu accetta, si rade, si unge, si libera (simbolicamente) dalla natura ed entra in città.
In Città c’è un re, Gilgames, appunto, un re urbano ma se si sente oppresso dalla stressante vita metropolitana.
Enkidu e Gilgames sono dunque speculari, uno viene dalla natura ma è entrato nella città, l’altro è cittadino ma sento il richiamo della natura. Diventano amici inseparabili e un giorno Enkidu convince il re a misurarsi con la natura.
I due partono, direzione monte del Libano, alla ricerca del più bel e maestoso cedro, per tagliarlo e ricavare legno per costruire la porta di un tempio. Però il monte è vegliato da un toro e Gilgames lo uccide e ancora eccitato abbatte non uno ma tanti cedri.
Un dio si offende, è un atto di superbia, ovvio. Il dio fa ammalare Enkidu che muore tra le braccia di Gilgames, maledicendo il giorno a cui ha ceduto alle lusinghe della ragazza ed è entrato in città.
C’è un sottile passaggio psicologico. Quando Enkidu muore, Gilgames capisce che la natura, con la sua vitalità rende più forti, rudi e selvaggi, forse immortali e comincia a vagare, vestito di stracci, imitando il suo amico morto e finisce per trovare una landa selvaggia dove vive Utanapistim.
Un uomo che aveva costruito un’arca per salvarsi da un diluvio e a cui- si diceva- gli dei avevano accordato l’immortalità.
Ebbene, Gilgames interroga l’uomo e scopre la triste verità: la morte è una condizione inevitabile dell’esistenza. Dunque, fa ritorno in città con una nuova consapevolezza, i singoli individui sono destinati a morire ma la forza collettiva del genere umano sopravvie attraverso gli edifici e le opere umane, simbolo di conoscenza.
Conoscenza che fa preservata e tramandata. Ma come? Incidendo dei simboli, lettere su tavolette di argilla.
Gilgamesh torna dalle lande desolate per portare un messaggio: la città è un dono degli dei.
Insomma, nell’epopea di Gilgames, il conflitto natura cultura, viene prima raccontato poi risolto con un elogio alla città, simbolo di cultura e segno di impegno collettivo: un grande party innovativo.