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Home Come Funziona

Gli agrumi: l’unico frutto che prende il nome da un mito
Giuseppe Barbera nel suo libro Agrumi, una storia del mondo (il Saggiatore) ci racconta il cammino.

da Redazione
21/02/2023
in Come Funziona
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Solo il frutto degli agrumi, tra quelli di tutti gli alberi, prende nome da un mito. Saranno i botanici a partire dal Rinascimento a chiamarli esperidi, dal nome delle ninfe che li custodivano, e non semplicemente bacche come quelle, carnose e polpose, dei loro consimili vegetali. 

Nei giardini degli dèi maturano i frutti più preziosi. In quello remotissimo di Gilgamesh, nel poema che lo celebra in una Mesopotamia di 1500 anni più antica dell’età omerica, erano frutti di corniolo e perle di mare tra foglie di lapislazzuli; in quello del mito greco diventano frutti d’oro talmente belli da renderli oggetto dei doni più preziosi, dei desideri più accesi e di eroiche imprese.

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Se la loro natura fosse minerale od organica non è chiaro, anche se il prosieguo del mito lascia propendere per la seconda possibilità dal momento che perdono valore trasportati lontani dal luogo di produzione e, nella variante rinascimentale, danno vita a giardini lungo le coste mediterranee. D’oro non sarebbe allora la loro materia ma l’apparenza che, nelle diverse versioni del mito, li porta a definirli pomi o meli, comunque dorati. Esiodo, che ne parla per primo, chiama il frutto melon. 

Denominazione che porterebbe a identificarlo con una mela se non si considerasse, come già aveva osservato Isidoro di Siviglia nel vi secolo d.C., che nell’antico greco così si definivano tutti i frutti di forma sferica. Nel latino, arcaico e classico, malum era il frutto polposo che si distingueva dal nux a guscio duro: entrambi generici pomi. Sarà solo in epoca medievale che malum verrà specificamente adoperato per indicare la mela; mentre, se utilizzato per altre specie, si renderà necessario un determinativo: malum persicum (pesca), armeniacum (albicocca), granatum (melagrana), medica (cedro). Ma prima del Medioevo melon designava tutti i frutti rotondi e il cedro tra essi. 

Così lo nominerà nel iv secolo a.C. il commediografo Antifane (che pure riconosceva la provenienza esotica e mitica) e sono mele anche quelle cui si riferisce Euripide nell’Ippolito: «Vorrei giungere alla terra ricca di meli /delle Esperidi dal canto sovrano». 

Sono frutti indefiniti che accompagnano, crescono e maturano in miti, leggende, favole e religioni. Quello con cui Eva tenta Adamo è un melon secondo i traduttori greci che avevano interpretato l’ebraico tappuah e lo è anche quello «dolce al palato» del Cantico dei Cantici. 

È melon il frutto che Atalanta si attarda a raccogliere obbligandosi alle nozze con Ippomene e quello che Paride assegna a Venere scatenando la guerra di Troia; è tra i giocattoli usati dai Titani per attirare il piccolo Dioniso durante le nozze di Cadmo e Armonia e quello che Afrodite usa per ornare la camera degli sposi e che Tantalo nel suo supplizio non riesce mai a cogliere.

Non poteva trattarsi, nelle storie più antiche, del frutto del melo domestico che, per diffondersi in coltura oltre le originarie foreste del Kazakhistan, aveva avuto bisogno della tecnica dell’innesto: tecnica di cui, in Occidente, per la prima volta parla Ippocrate nel iv secolo a.C., pur dicendo che era nota da tempo. Era anche improbabile che fosse il frutto della specie selvatica di melo che cresceva in natura nelle terre mediterranee ma così acido e astringente che Plinio dirà: «si biasima soprattutto l’incredibile asprezza, che è tanto forte da poter smussare il filo di una spada».

 Il frutto della Genesi, semmai, poteva essere la melagrana (carica di antichissime simbologie legate alla fecondità espressa dall’umida fessura che, aprendosi, mostra innumerevoli semi) o la mela cotogna o l’albicocca, affidandosi in questi casi alla rispondenza ambientale.

 Di certo si esclude che possa essere stato un cedro, come pretendeva il Talmud babilonese del iii‑iv secolo d.C. che arrivava a designare l’albero come quello del Paradiso. La definizione dell’esperidio di un cedro come malon si deve a Teofrasto che aggiunse al nome un aggettivo che indicava la provenienza geografica (medikon o persikon) e lo accompagnò con una, poco equivocabile, descrizione dei caratteri biologici.

Passeranno molti secoli (nel frattempo al cedro si è aggiunto il limone, il pomelo, l’arancio amaro) prima che l’apparenza degli alberi, il profumo e la bellezza di fiori e frutti, portino gli agrumi alla universale e riconosciuta identificazione con i frutti del mito delle Esperidi. Come si è detto, il primo a riconoscerli tali fu Giovanni Gioviano Pontano nel De hortis Hesperidum, sive de cultu citriorum, mentre la definitiva affermazione arriverà nel 1646 con l’Hesperides sive de malorum aureorum cultura et usu di Giovanni Battista Ferrari.

Le apparenze sono quelle dei mitici mala: frutti rotondi (tali le arance, in realtà i limoni sono frequentemente ellittici, i mandarini obovati e i cedri cilindrici), lucenti per la cera che ricopre anche le foglie; il colore è giallo o arancione quando a maturazione la clorofilla verde si muta nei carotenoidi. Possono anche essere rossi o sanguigni se si accumulano le antocianine o rosa per il licopene. Sono i colori del tramonto ai confini della Terra dove si trovava il giardino delle ninfe, quando il cielo si tinge di giallo e di verde e il sole che tramonta nel mare pare una sfera arancione e rossa. 

Sono i mala aurantia di cui Ferrari dirà che «in nessuna altra frutta la natura raccolse oro più bello come se le radici avessero assorbito il metallo sotterrato in grande quantità e lo avessero diffuso nei frutti». Per questo poté diventare d’oro anche il nome. (Tratto da: Agrumi, Una storia del mondo, di Giuseppe Barbera, il Saggiatore. Per gentile concessione dell’editore).

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