Spostare un gene da una pianta all’altra, una pratica che fanno tutti, mica solo gli scienziati, pure quelli che per hobby fanno l’orto. Vogliamo comunque giocare a fare i genetisti. Indossiamo i loro camici. Bene cosa facciamo?
Per prima cosa non stiamo nei laboratori tutto il tempo, anzi camminiamo per i campi. Andiamo per le campagne per parlare con gli agricoltori e questi ci dicono: dotto, ‘sta pianta non produce niente. Oppure: dotto’, io mi ricordo che c’era una varietà di insalata che era resistente alla peronospora. Peccato, non si trova più. I genetisti, cioè, parlano con gli agricoltori e cercano da loro informazioni: come si comportano le colture alla prova dei fatti, in campo? Danno o non danno problemi? Ci sono soluzioni? E richieste particolari? Se un contadino dice: ‘dotto’, guardate che qui la pianta marcisce dalla radice, è un guaio, che dobbiamo fare? Dobbiamo studiare, ecco cosa ci tocca fare per non evadere la loro richiesta.
Per esempio, quella varietà di pomodoro che resiste a un due antipaticissimi funghi tellurici, il Fusarium o il Verticillium (sono funghi trasmessi attraverso il terreno, che causano marciumi e che per complicare le cose hanno sviluppato strutture di conservazione così resistenti che possono resistere nel terreno diversi anni) è una varietà selvatica. Perché resiste? Ci tocca allora studiare il germoplasma delle piante resistenti, individuare quali geni (quali tratti di DNA) determinano la resistenza e trasferirli. Come? Generalmente attraverso gli incroci. Faticoso? È un processo abbastanza lungo. Magari fai un incrocio e il gene utile non si manifesta (rimane silente), ne fai altri 20 e ottieni una pianta con quel gene utile per la resistenza ai funghi ma con altre caratteristiche non valide dal punto di vista agronomico. Ci tocca reincrociare finché non abbiamo ottenuto quel gene utile più tutti gli altri, per noi vantaggiosi. E in tutti questi reincroci che succede al genoma del pomodoro? Che ne sappiamo se non abbiamo generato un mostro? Che ne sappiamo se questi prodotti modificati possono avere nel tempo effetti dannosi sulla salute umana? Dura la vita dei genetisti, eh? Solo che in questi anni domande siffatte non ce le siamo mai poste. Facciamo incroci o bombardiamo il genoma delle piante con radiazioni per ottenere mutazioni utili o, come genetisti, utilizziamo altri strumenti. E abbiamo migliorato di parecchio i prodotti, altro che quelli di una volta. Sono più ricchi di sostanze nutritive, da 30 anni a questa parte il breeding convenzionale ha portato alla formazione di cultivar con elevata presenza di composti antiossidanti (vitamine C ed E), flavanoidi, acido lipoico, polifenoli e antociani, basta osservare il colore della bacca: abbiamo pomodori rosso intenso, rosso arancione, verde ecc. Non sanno di niente? Ma no, il problema è che vengono, in genere, raccolti quando sono ancora acerbi, per essere poi trasportati nei banchi vendita. E nel trasporto si attiva la maturazione con l’etilene. E’ un prodotto naturale, cioè è l’ormone che promuove naturalmente la maturazione del frutto, solo che nelle celle frigorifere non si possono sviluppare tutte le fase di maturazione, quindi capita che sono rossi fuori e acerbi dentro. E’ un problema che deve essere risolto. Come? Cercando quei geni che conferiscono la maturazione ritardata e quindi maggiore serbevolezza. Bene, resta il fatto che abbiamo spostato geni servendoci di strumenti, detti (adesso) tradizionali, ma che solo 50 fa, ai tempi di Strampelli, erano considerati forzature. Se ci fosse un altro sistema? Più veloce e più sicuro? Se si potesse individuare il gene responsabile del carattere e trasferirlo, solo quel gene, e non le altre centinaia ad esso legati, sarebbe bello, vero? Noi genetisti potremmo risparmiare tempo, ottenere in fretta la varietà, mettere sul mercato il prodotto, passarlo ai contadini e vedere l’effetto in campo. Vero? Sì.