La vita è fatta di cicli, che nascono, si sviluppano, raggiungono l’apice, scemano, si chiudono… e di certezze. Salde. Inattaccabili. Fideistiche. Ne ho vissute diverse, e con gran piacere. Credo di aver cambiato 5 religioni, considerando anche il politeismo delle elementari. Non ho mai cambiato squadra di calcio però, forse perché è una tradizione di famiglia. E non ho mai cambiato, sicuramente anche perché è una tradizione di famiglia, la mia passione per la fava romanesca…che come dice la canzone: “La potemo arigalà”. Fin da quando eravamo piccoli, mia madre e i miei zii hanno insegnato a me, a mio fratello, alle mie cugine e ai miei cugini quanto fosse fondamentale aspettare marzo per potersi permettere pienamente la “gioia infinita” di godere delle “abbuffate di fave” che sarebbero arrivate fino a fine aprile o giù di lì: due mesi che valevano più del Natale e della pasqua messi assieme. Anche se poi… a Pasqua un’abbuffata era d’obbligo in ogni caso. E allora via a fare il conto alla rovescia: dal 2 maggio al 21 marzo l’“attesa” poi… “le fave”! Ricordo sveglie di prima mattina per essere tra i primi acquirenti del contadino che le vendeva a “kilometro zero” (anche se negli anni Novanta non si usava molto questo termine) sulla via che portava da Roma a Campo Ascolano. Si assaggiava la merce, e se “la donna del monte” (ovvero mia madre) diceva “SI” se ne prendevano varie (varie) cassette che sarebbero state rovesciate sul tavolo a fine pranzo, altro che dolce! Dolci lo erano, quando erano fresche. Talmente dolci che a volte le si preferiva senza il pecorino. Girava poi la leggenda che non si dovesse bere acqua mentre le si mangiava perché “Fa molto male”. Spesso vado su internet a controllare, ma non è mai riportata questa “dritta”. Ricordo che diverse volte le portai al Liceo per mangiarle come merenda. Ricordo soprattutto una cena di un gruppo ultrà (per chiudere il ciclo sulle fedi calcistiche) della Roma: era il 1994, avevo 13 anni ed ero il più piccolo del gruppo. Alla cena mi accompagnò mio padre, che non solo non è un ultrà, ma non segue proprio il calcio. Ero la mascotte del gruppo, e i “capi-ultrà” mi vollero al loro tavolo, per questa cena romana e romanista. Mangio, rido, canto. Poi a fine cena: le fave!!! Mettono i diversi kili sul tavolo dei “capi”…poi tutti si alzano e iniziano a cantare cori, a parlare, a vedere i gol delle vecchie glorie…e io lì…fermo…fisso…felice. Ultrà della fava romanesca. Li ho finiti tutti quei kili. Da solo. “Aho ma quanto magna questo?!” D’altronde noi la fava romanesca “la potemo arigalá”!