Il cibo dell’infanzia a cui penso, se ci ripenso, me lo fece assaggiare Stefania. Più che a un assaggio, quello di Stefania somigliava a uno spaccio clandestino, che lei realizzava quando sua nonna era impegnata a sgranare il rosario nella penombra del salotto. Le preghiere sussurrate che facevano da sottofondo alla nostra merenda, le conferivano un’aura vagamente sacrilega. Pane, olio e sale, era questa la nostra trasgressione. Stefania, molto bionda e molto scaltra, rimediava da una cassettiera due fette di pane di Altamura, e me le consegnava perché le tenessi in mano senza farle cadere. Due reliquie grandi come suole di scarpe. Stefania le cospargeva di olio extravergine d’oliva assieme alle mie dita, che sgocciolavano lente nelle maniche del maglione e sul pavimento di graniglia. Subito dopo era volta del sale, in quantità talmente generose e scriteriate che quelle merende carbonare, vissute col terrore di essere scoperte, ci resero bambine tese e, mi viene il sospetto, pure un po’ ipertese. A parte la mano pesante col sale, oggi un nutrizionista si commuoverebbe di fronte alle due piccole ambasciatrici della dieta mediterranea che eravamo. Ma per me e Stefania, pane olio e sale doveva rimanere un segreto. Il nostro segreto, al riparo dallo sguardo severo di sua nonna e da quello di Dio…