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L’albero e la vite di Dola de Jong

da Valeria Cecilia
24/02/2023
in AgriCULTura
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Un libro che all’inizio, a leggerlo, sembra non avere troppa ambizione letteraria, o quanto meno stilistica. Un racconto lungo in prima persona che rende protagonista un’altra (seconda) persona (un po’ modello Grande Gatsby), con nessuna azione in presa diretta ma tutto raccontato ex post, come già accaduto e anche elaborato, e con molte anticipazioni. Cosa ne direbbero le scuole di scrittura oggi? Probabilmente ci farebbero rileggere un eccezionale racconto di Carver, Grasso, dove l’elaborazione psicologica di un fatto avviene progressivamente, in diretta, e crea una tensione magica per il lettore spettatore che sente di stare spiando due amiche che parlano. Le scuole e le regole vanno bene, ma forse dovremmo recuperare un po’ di calma, metterci sul divano fingendo di avere parecchio tempo per leggere e levarci la smania di trarre subito le conclusioni. 

L’albero e la vite è l’opera più importante di Dola de Jong, olandese di origine ebraiche (Arnhem – Paesi Bassi 1911, California 2003), recentemente riscoperta e tradotta in molte lingue. Da noi arriva grazie a La Nuova Frontiera, con la traduzione di Laura Pignatti. Come tutte le opere riscoperte, anche questa pone delle questioni di storia e (dovrebbe) anche di stile.

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Il libro, dopo vari rifiuti, fu pubblicato in Olanda nel ‘54, e fu reputato scandaloso perché racconta la relazione tormentata di due giovani donne di Amsterdam, di cui una con origine ebraiche, alle prese con sentimenti inaccettabili in una società che si apprestava a vivere il nazismo e la guerra. A leggerlo ora, questo libro, risulta invece palese che l’amore omosessuale è un elemento piuttosto secondario del romanzo. Lo dice anche Kristen Gehrman, la traduttrice della nuova edizione inglese (2020) “È facile guardare a questa storia (…) come una storia d’amore lesbica (…) Ma (…) sono arrivata a vedere la loro inquietudine come il riflesso di un’esperienza femminile più ampia”.  

Il fatto bello è che qui l’omosessualità è drammatizzata al minimo, e questo ha consentito all’autrice di rendere “normali” le cose, ha consentito l’assenza di giudizio, e così tutto risulta molto “vero” a chi legge. Ecco perché, nonostante una struttura lontana dal creare tensione, la narrazione è tutt’altro che manchevole di fascino: il lettore ha comunque la sensazione di partecipare agli accadimenti.

In secondo luogo questo non è un romanzo tanto di trama, ma di personaggi e loro mondi psicologici, che conquistano per originalità. La narratrice, Bea, è una donna che può risultare inaccettabile ai giorni d’oggi: è una segretaria dimessa, senza ambizioni; vive di piccoli gesti quotidiani, spesso in solitudine domestica, e per lei amare Erika significa seguirla, servirla, pulirla, curarla, aspettarla, tentare di salvarla dai rastrellamenti, senza nulla avere in cambio, molto spesso neanche la sua presenza (ci ricorda Tonja, la moglie di Ziwago). Erika invece è egoista, oscura, inaffidabile, intrepida, con tendenze autodistruttive, e pretenderà da Bea il rispetto della propria libertà, anche di amare altre donne.

Entrambi i personaggi sono pieni di sfumature, contraddizioni, lontani da chiari archetipi, ma sono costruiti così bene da risultare umanissimi, intensi, tangibili, memorabili. Perché, come nella fotografia e nella pittura, anche nella scrittura ciò che colpisce non è sempre la bellezza dell’oggetto ritratto, ma la qualità del ritratto stesso.

C’è anche un’altra cosa che dona peculiarità stilistica a quest’opera: a leggere la biografia dell’autrice, a cercare in lei una qualche radice di questo libro (il suo preferito), scopriamo che la sua vita è infiltrata nel libro, ma non nella protagonista narratrice, ma in Erika: de Jong ha origine ebraiche, si definiva una ribelle etc. (no spoiler) Quindi, de Jong è Erika, e si fa raccontare da Bea nel libro: non è questo un magnifico espediente narrativo? Raccontarsi attraverso la voce di un personaggio che è l’opposto di sé. E agli occhi ben attenti, non sfuggirà un unico breve passaggio in cui Erika prende la narrazione in prima persona. 

Tutto questo vale a dire una cosa importante, di cui tra l’altro oggi, stagione fertile di riscoperte e ripubblicazioni, si discute: le opere letterarie per essere tali non possono avere solo il valore della testimonianza, ma devono avere anche un valore artistico. E L’albero e la vite li ha entrambi.



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