“Quelli si sono messi a ridere tutti e tre e mi hanno detto che io sono cresciuto nelle caverne come un primitivo”.
“No, sono cresciuto in un bosco con un uomo primitivo”.
La raggia è il nuovo romanzo pubblicato da Pidgin Edizioni, a firma di Mattia Grigolo (vive a Berlino, autore di racconti pubblicati su diverse riviste, fondatore dell’hub creativo Le Balene Possono Volare).
Il protagonista è un giovanissimo ragazzo che vive da solo con il padre in una baracca, che è la loro casa, dentro un bosco.
Il ragazzo frequenta la scuola solo per pochi anni, poi non ci va più. Per il resto, la sua vita è un disperato quanto lucido tentativo di andare oltre alle botte del padre e al vuoto che lo circonda, dove mancano relazioni, attenzioni, educazione, un letto vero in cui dormire e qualcuno che cucina un pasto. Il giovane ha poco e niente. Ha qualche amico. Ogni tanto scende al paese. Prima, nella baracca, c’era anche la sua mamma, affettuosa e amorevole, ma poi è scomparsa. Anche la sua fidanzatina, la prima, bellissima fidanzatina, Nina, a un certo punto è scomparsa. Il padre non parla mai, “non chiede e non dice” (come tutti quelli del posto), è completamente indifferente a tutto, comunica solo con le botte e a volte qualche frase svilente.
Cosa può mai fare, e cosa è in grado di desiderare, un ragazzo così, solo, con tutto questo vuoto e questa maledizione intorno? Intanto scrive un diario, con la sua lingua, quella che conosce, dove butta fuori il suo dolore. Poi si rifugia nel bosco, luogo che lui conosce alla perfezione, e dove vede spesso una volpe. Questi sono i suoi strumenti, i suoi “tentativi”.
La prima domanda che sorge leggendo questo intenso e acuto racconto è che rapporto ci sia tra conoscenza e dolore.
Ci si chiede se chi non ha ricevuto e quindi sviluppato degli strumenti cognitivi, analitici e diagnostici della realtà, degli altri e di sé stessi, chi non ha sedimentato nella mente alcun alfabeto linguistico (se non quello basico) né sentimentale, chi è vissuto in un contesto primordiale anzi primitivo, ed è rimasto ineducato, ecco, ci si chiede se una persona così sia in qualche modo, per forza di cose, messa al riparo dal sentire il dolore.
Viene cioè da chiedersi se quella non conoscenza e mancata capacità di comprensione delle cose, e quindi anche di nominarle, coincida con il non sentire le cose. Se uno stato più primitivo della nostra coscienza, quindi una condizione di inconsapevolezza di noi e della realtà, renda anche meno consapevoli e attaccabili dal dolore.
Il ragazzo protagonista di questa storia, dicevamo, tiene un diario. Cosa sa scrivere un ragazzo così? Scrive tutti i suoi pensieri e le sue emozioni, svelando una grandissima intelligenza emotiva, un vivissimo e bruciante contatto con i suoi dolori e desideri. Quindi, forse, la prima risposta alla nostra prima domanda è no, l’inconsapevolezza cognitiva non rende impermeabili, e in un certo senso salvi, del dolore.
La scrittura del ragazzo è la voce narrante del libro, attraverso la quale conosciamo la sua storia. Una cosa che va detta, prima di entrare nel merito della voce, del personaggio e della storia, è sulla struttura del testo. Ci sono 3 capitoli ed è montato scomposto: 2, 1, 3, poi ci sono delle pagine mancanti e poi una lettera. Fin dall’inizio sappiamo come è andata a finire la storia. Ma questo non toglie forza alla lettura, in qualche modo la rafforza, a testimoniare il fatto che il “come” nella letteratura è più importante del “cosa”, e a confermare che se il lettore è condotto in una lettura che lo stimola e lo attiva a ragionare, il libro assume più valore.
Nel diario del ragazzo le prime parole che si leggono sono:
“E’ la rabbia che c’ho perché c’ho solo quella e niente altro”.
“La rabbia che è mia e che viene fuori nel momento sbagliato senza che me ne posso accorgere”.
Il ragazzo oltre la rabbia ha anche il dolore. Quando perde la sua fidanzata Nina, scrive:
“Quasi che piango, che provo più dolore io adesso di quanto l’ho provato in tutta la vita mia, perché è un dolore diverso da quello delle botte”.
Il ragazzo ha perso anche la mamma, che era una mamma dolce e accudente, ma è sparita, e il ragazzo vive nella sua mancanza, non sapendo se lei se ne è andata o se è stata fatta fuori dal padre.
“La rabbia me l’ha passata la bestia”.
La bestia è il padre, ma anche la vita, che lo ha intrappolato in una gabbia, in un destino, in un copione, di cui lui è terribilmente consapevole:
“E’ un male che c’ho dentro le ossa, e pure più in fondo e mi blocca”.
Ecco una seconda domanda: cosa possiamo fare contro il destino? Possiamo cambiarlo? Abbiamo tutti diritto a un terzo atto? Quanta responsabilità e quindi potere abbiamo sulla nostra vita?
Il protagonista di questa storia, è chiaro, esce sconfitto dal suo tentativo. Non riesce a gestire i suoi comportamenti violenti, non riesce a superare la rabbia che lo corrode dentro, a guarirne, anche se lo vorrebbe tanto. Non riesce a cambiare vita, a realizzare i suoi sogni, che erano farsi una famiglia con Nina. Si autocondanna. Compie un femminicidio (lo sappiamo fin dall’inizio del libro).
“Chi mi fa tornare indietro?”
Questa sconfitta non è solo una sconfitta dell’uomo contro la società ma è soprattutto una sconfitta contro le forze antiche che ci governano, quelle che fanno capo alla nostra parte più antica del cervello, quelle che risuonano dall’amigdala, sia che noi siamo colti, educati o che non lo siamo affatto. Quelle che si prendono l’eredità dal passato, dagli avi oltre che dai nostri genitori.
Quindi dicevamo, questa è la storia di una terribile e sofferta sconfitta. E la sconfitta la conosciamo appena iniziamo a leggere il libro. Ora, passando a una analisi formale del testo, ha senso questa impostazione narrativa?
Il senso c’è, ed è tanto raffinato quanto abile, perché questo libro non è la storia di un femminicidio, pur essendoci il femminicidio come finale. Perché il focus qui non è sull’epilogo specifico, ma sulla dinamica, non è sul terzo atto drammatico, ma sul secondo atto, che è quell’esperienza umana fondamentale che si chiama “tentativo”. Tentativo di guarire, di riparare, il tentativo di farcela.
Sul diario del ragazzo in molte pagine ci sono delle cancellature. Che non sono state fatte solo per correggere gli errori della lingua, ma sono il tentativo di correggere il corso della vita. Le parole cancellate sono non a caso quelle che raccontano la rabbia, le botte, la madre, la malefatta. Cancellare le cose che ci hanno fatto male, cancellare gli errori.
Il tentativo è, ad esempio, al centro dell’indagine poetica dell’autrice francese Nathalie Lèger (tradotta in Italia da La Nuova Frontiera) che ama raccontare l’animo umano non nel risultato delle gesta compiute, ma in quella precisa fase della sua lotta. Per lei il risultato, il risvolto, il terzo atto, non sono interessanti: “Un grande gesto può essere anche un gesto mancato” scrive Lèger ne L’Abito Bianco. E poi, “mi sono interessata alla storia di questa giovane donna, proprio quando (e forse perché) mi è stato detto che non era certo fosse un’artista” scrive a proposito della sua ricerca su Pippa Bacca.
Un’altra questione formale che si pone leggendo questo libro è: come si fa a costruire un personaggio, autore di un femminicidio, senza indurre il lettore a schierarsi?
Si tratta di avere anche qui un’abilità letteraria, più che tecnico narrativa, perché significa riuscire a mettere in pagina un personaggio senza giudicarlo, adottando un punto di vista che parte da una posizione, una postura, molto precisa, e la tecnica non basterebbe. È una postura sentimentale e intellettuale insieme.
Un’abilità messa a punto magistralmente, ad esempio, da Mary Gaitskill nel libro Questo è il piacere, dove l’autrice riesce a dare voce a chi compie le molestie e chi le subisce senza che ci si possa schierare da nessuna parte quando si legge, perché lo sguardo sulla realtà è quello di una macchina da presa che ha una perfetta messa a fuoco, e più racconta in modo nitido come stanno le cose e più non si capisce come le cose come stanno davvero.
Anche l’autore de La raggia non giudica, costruisce uno sguardo perfettamente lucido e credibile, che consente al lettore di vedere fino in fondo tutto e comprendere, senza necessità di giudicare, senza necessità di identificazione.
Il personaggio creato dall’autore non è mai vittimista.
Ha una voce pura, di bambino, lo sguardo della prima lacrima, una voce mai cattiva, tranne che verso il padre, la bestia. La sua rabbia si ritorce contro sé stesso. Fa male a lui.
Non è un narcisista.
“Quelli con me stesso sono problemi che più mi danno pena”: cosa c’è di più lontano di questo animo da quello di un narcisista, che da sempre la colpa agli altri dei fallimenti, che non guarda mai dentro di sé?
Il ragazzo ha una potente intelligenza emotiva ed è un essere fortemente desiderante. E il suo desiderio e il suo tentativo sono gli stessi di tutti.
Saltare il muretto, riuscire ad andare oltre le imposizioni, le eredità, guarire, riparare, salvarsi. Farcela ad essere quello che vorremmo essere.
Quindi, ultima domanda: perché il ragazzo non ce la fa? Perché il suo tentativo fallisce?
“I disastri ce l’ho dentro”.
Perché è solo, è sempre stato solo. E nessuno riesce farcela senza che qualcuno gli passi la fiducia.