Da piccolo, quando dovevo affrontare un compito in classe o un’interrogazione, prendevo due cucchiaini di zucchero. Dopo gli studi universitari ho vissuto un periodo di moderato scazzo: non avevo tempo per lavorare. Volevo solo trascorrere le mie giornate in un bar qualsiasi. Cercavo un non senso. Avevo bisogno di restare il più a lungo possibile in quella breve attesa che c’è tra la richiesta e l’arrivo del caffè. Quel tempo era pieno di monarchia asburgica. Era il mio appuntamento quotidiano con la metafisica, era una specie di commovente fiducia di poter chiudere anche l’ultima falla all’irrompere della sorte. Non aveva senso. Eppure, in quel non senso, ritrovavo la direzione e tornavo a raccogliere lo zucchero rimasto in fondo alla tazzina.