Quando ero piccolo, capitava, talvolta, nel tardo pomeriggio, quando la mamma finiva di lavorare e il buio era già sceso, di andare a trovare la nonna Antonietta e il nonno Saro. Erano i miei nonni paterni, e in quelle fugaci visite preserali li trovavamo spesso da soli, diversamente da quanto accadeva durante i pranzi domenicali in cui ci riunivamo insieme a zii e cugini.
Sovente, in mezzo a quel caratteristico odore dolce e acre delle arance nel portafrutta, la nonna tirava fuori dal forno la frittata di patate, alta e spessa, insaporita dall’abbondante formaggio. Generalmente era stata preparata a pranzo o il giorno prima, e proprio per questo acquisiva un sapore speciale, ch’era tutta un’altra cosa. Con le sue mani smaltate di rosso (come i suoi capelli), da fiera donna siciliana che aveva vissuto intensamente, avvolgeva la fetta di frittata nella carta assorbente e ce la porgeva con fare amorevole e uno sguardo d’intesa.
Finite le chiacchiere e lo spuntino, ci accompagnava alla porta, assicurandosi sempre che avessimo salutato il nonno. Poi un bacio e «buonanotte, ciao ciao», col suo accento siciliano e gli occhi normanni che ci seguivano sul pianerottolo. «Buonanotte, ciao ciao», furono le ultime parole che ci mormorò prima di andarsene per sempre, una domenica mattina di gennaio, troppo presto per avere il tempo di preparare la frittata di patate. Ma è lì che la immagino incarnata, come un Cristo nell’ostia consacrata.