Il cibo che ricordo dell’infanzia più che un sapore, è un rito saporito. La marmellata di more e sambuco che preparava la mia nonna materna, colei che oggi definiremo una “strega di campagna”. Agli occhi di me bambina era magica la mia nonna, perché da ciò che offriva la campagna e la natura, ricavava particolari intrugli “curativi” e creme di bellezza straordinarie.Il rito della marmellata di more e sambuco si svolgeva nei primi giorni di agosto, si usciva “chi c’è, c’è!” alle prime luci dell’alba per andare a raccogliere i frutti maturi del sambuco, terminata la raccolta sopra le ceste riempite dai frutti, si poggiavano due o tre rametti “ne ciucarelli (non troppo fini)! ne troppo cicciotti eh!” ricavandoli dall’albero del sambuco stesso. Dopo aver mondato le more precedentemente raccolte e i frutti del sambuco, sì iniziava la cottura aggiungendo lo zucchero e “m’pelo (un po’) ” d’acqua, qui comparivano i rami del sambuco, rigorosamente utilizzati al posto dei mestoli (guai a fare altrimenti!) per girare, girare, girare e coccolare la marmellata che sbuffava impaziente nella pentola.Quando il contenuto della pentola si stufava di sbuffare, si andava a versare in quei bellissimi barattoli con i tappi d’oro e finalmente potevo tuffarmi con le mani nel pentolone e leccare tutti i resti di quel nettare magico, che oggi ricordo come il sapore e il profumo della mia infanzia..