La casa circondariale di Alba (costruita nel 1983 e aperta nel 1987), vista dall’alto, occupa lo spazio tra l’autostrada Asti/Cuneo e un’ansa del fiume Tanaro. La prima cosa che si nota, appunto, dall’alto, è un campo di calcio, ben tenuto. Poi, se fate attenzione potete notare dei filari di piante. Sono meli, peri, olivi? No, viti. Naturalmente lo sappiamo: Langhe e Roero sono valli ormai consacrate, oltre al nocciolo e ai tartufi, alla viticultura, e tra l’altro sono un patrimonio dell’Unesco. Sono le stesse terre che Fenoglio descriveva qualche decennio fa, allora erano zone povere e insalubri, simili ad altri territori desolati che c’erano in Italia, magari sotto il gioco della malaria, della povertà e della rassegnazione, con bassa aspettativa di vita e alta mortalità infantile: i figli nascono, muoiono, si piange un po’ e se ne fanno altri, scriveva Fenoglio. Ora, per fortuna, il motore dell’agricoltura a partire dagli anni ’50 ha cominciato a muoversi con ritmo diverso, e migliorando le sue prestazioni ha migliorato anche il territorio: Langhe e Roero ne sono un esempio, appunto.
Si tratta di un territorio che ospita molta innovazione, e di vario tipo, non solo quella strettamente agricola, ma anche quella culturale, sociale, antropologica. Esempio? Proprio la casa circondariale di Alba. Quei filari di viti che si vedono dall’alto, fanno pensare che quel carcere sia fortemente legato al territorio, vite richiama vite, la pianta entra in carcere e innerva lo spazio tra le mura con la sua coltura e dal carcere trae energia e stimoli, che a loro volta producono echi che si riflettono sul territorio, in un gioco di rimandi e di specchi. Ecco che l’innovazione del territorio entra in carcere, si distilla, si raffina e poi torna sul territorio. E’ una cosa concreta: “Valelapena” parlarne.
Valelapena infatti non è solo un modo di dire. Dal 2006, con la collaborazione dell’Istituto Enologico Umberto I (che ha messo a disposizione la competenza enologica per la vinificazione dell’uva, nonché classi di studenti disposte ad andare in carcere e dare una mano) e dal 2009, con l’ingresso nel progetto di Syngenta (che ha fornito prodotti per la difesa del vigneto e piantine di fiori e orto per la serra, e personale tecnico qualificato per la specifica formazione ai detenuti nell’uso dei trattamenti e nella coltivazione in serra), questa casa circondariale ha avviato un progetto, dal nome molto suggestivo, Valelapena, appunto.
Nella sostanza, i detenuti imparano a fare i contadini, coltivando la vite (ma c’è anche un piccolo orto), una coltura pregiata, rappresentante d’eccezione del Mediterraneo, con notevoli simboli religiosi e culturali. Nella speranza che una volta usciti, istruiti a dovere, possano dire un po’ a tutti: ho fatto, o sono, o voglio fare il contadino.
Perché il contadino? Perché è un modo per riacquistare fiducia in sé stessi, e forti della fiducia poi tornare sul territorio per rivitalizzarlo. La terra magari evoca ricordi belli e brutti, dipende, ma è reale, la calpesti, la tocchi, ti sporchi. Se coltivi la terra spieghi facilmente il tuo lavoro, senza termini inglesi di moda, che solo la definizione occupa due righe. Faccio il contadino, faccio l’imprenditore agricolo, coltivo la vite, sono descrizioni cosmopolite, chiunque vi troviate davanti, di qualunque provenienza, venisse anche da lande desolate del Pianeta, chiunque farà cenno di sì. Un cenno d’intesa, un gesto di fiducia, come stringersi la mano, anche se non c’è nessun patto da siglare: imparare a fare il contadino, a coltivare la vite in carcere, significa molto, è un processo di maturazione e di fruttificazione.
Come è iniziato tutto questo? Che risultati ha portato? E non ultimo, sono state prodotte bottiglie di vino? Perché vanno bene le parole ma spesso solo di accompagnamento, poi contano i risultati.
Come è iniziato ce lo racconta Giovanni Bertello (l’allievo) che insieme a Sergio Pasquali (il maestro), molti anni fa pensarono di utilizzare dei terreni incolti all’interno delle mura carcerarie per impiantare un vigneto e coltivarlo. Va bene, fin qui è facile.
Primo problema: come coltivare all’interno di un carcere? Un carcere con i problemi che conosciamo, le dinamiche che possiamo immaginare, come, per esempio, conciliare l’orario di lavoro che la terra e l’istruzione richiedono con i ritmi che il carcere impone? Con la buona volontà di tutti, ci dice Giovanni. Perché è stato scelto il vigneto? In fondo ci sono anche altre piante. Ecco – dice Giovanni- è un altro esempio di buona collaborazione, grazie alla quale siamo riusciti a far collimare le esigenze di sicurezza del carcere con quelle di insegnamento di tecniche agricole. Cioè? E cioè, non si potevano certo coltivare piante ad alto fusto, insomma, un salto e via, se fuori le mura, quindi si è scelto il vigneto vuoi perché è la coltura simbolo del territorio, vuoi perché, con un particolare tipo di allevamento, Guyot, non arriva a due metri (forse il più diffuso sistema di allevamento della vite, ideato dal Dott. Jules Guyot verso la metà XIX secolo) e poi va considerata la disponibilità di manodopera. La vite necessita di cure e dunque, in questo modo, si possono far lavorare più persone.
Va bene, passiamo ai risultati. E sì, ha funzionato, eccome, a parte i numeri che poi alla fine vedremo. Visto anche i problemi legati alla detenzione, voglio dire, a parte le annate (in alcune i detenuti stranieri superano il 60% in altre, quelli italiani superano gli stranieri) ma qui, ad Alba, la maggioranza dei detenuti sono colpevoli di reati cosiddetti minori, quali spaccio o rapine, e magari non subiscono pene lunghe, ma appunto, andavano individuati quelli che (oltre a essere disposti a lavorare) avessero pene lunghe almeno un anno, così da poter completare il ciclo (quindi diciamo che il ciclo della vite, da novembre a novembre, doveva coincidere con l’arco di pena).
In questi 15 anni, circa 60 persone hanno avuto la possibilità di mettere in pratica quanto appreso durante la detenzione, e soprattutto – è questo è il valore emozionale nonché pratico- anche chi, una volta uscito non si è occupato di viticoltura, ha imparato a riempire uno spazio vuoto, perché il carcere lo è: tempo vuoto, inquieto e febbrile.
I detenuti hanno imparato il valore della pazienza, perché ci vuole pazienza e attenzione per coltivare, non spunta mica a comando l’acino, quindi gesti ripetuti come un mantra e in sostanza, effettua un trattamento, una potatura, un rincalzamento, dedica il tuo tempo alla vite e la vite ti ripaga. A volte semplicemente perché ti fa andare a dormire stanco e felice, come dicono ancora oggi, alcuni ex detenuti. Le lezioni si svolgono metà in carcere, nei mesi più freddi (e sono lezioni di agronomia ad ampio raggio, visto che ci siamo insegniamo anche orticoltura e corilicoltura) e l’altra metà, dalla primavera in poi in campo (che poi carcere e campo sono in questo caso luoghi chiusi, circondati da mura).
Problemi non ce ne sono stati, tranne quando qualcuno dimentica una cesoia in tasca, ma sono casi rari, anzi, il sorvegliante del carcere, si è così appassionato al progetto che ora bisogna fermarlo, perché vuole partecipare e lavorare e vendemmiare, anche lui.
Quindi, se arrivate dall’alto, magari a novembre, e guardate la casa circondariale di Alba, potete vedere detenuti contenti. La vendemmia è la sintesi di tutto il lavoro e infatti alcuni detenuti alzano i grappoli verso il sole, a mo’ di benedizione. Sono così contenti che quando il carcere ha dovuto chiudere per epidemia di legionella, e i detenuti sono stati trasferiti in carceri adiacenti, è successa una cosa particolare: ogni settimana partivano due detenuti, in treno, per andare a curare la vigna, insomma non hanno abbandonato la terra.
Sono così contenti che hanno ottenuto un permesso particolare, una volta all’anno: possono assaggiare il vino prodotto.
Certo sarebbe bello che il carcere diventasse anche cantina, ma ci sono problemi e protocolli burocratici da rispettare, sarebbe bello che i detenuti potessero avere un diploma certificato e spendibile fuori (ma si vedrà, è un campo ancora aperto e da arare).
Tuttavia, per il momento va bene così e i numeri sono questi: 16 dipendenti all’anno che negli ultimi 15 anni hanno prodotto 30.667 bottiglie, con un ricavo di 153.335 euro (5 euro cadauna). Alcuni di loro, tre per la precisione, una volta usciti hanno continuato a lavorare nell’ambito della viticoltura e quindi, come dire, siccome il territorio ha dato qualcosa a loro, loro hanno restituito qualcosa al territorio.
Quindi dall’alto e dal basso, vale sempre la pena guardare e coltivare la terra, perché, come dicono i vecchi contadini e come dice anche Giovanni: più dai alla terra più la terra ti restituisce, a patto di rispettare la tempistica che le fasi fenologiche impongono, e anche questo è un insegnamento che resta, dentro e si spera fuori dal carcere: perché Valelapena non solo ricorda a tutti il ruolo educativo, spesso dimenticato, dell’agricoltura e la sua importanza per la nostra economia e per il nostro tessuto sociale – la terra è una occasione concreta di riscatto per chi ha perso temporaneamente la rotta e rischia di restare ai limiti della società –ma ci ricorda che i riflessi colturali e culturali di uno specifico territorio, come Langhe e Roero, arrivano lontano, oltrepassano mura di un carcere e da qui, più sfavillanti toccano in un balugino colorato, pieno di potenzialità, le colline delle Langhe e del Roero, a sprazzi illuminano i vigneti e i paesi circondati dai campi, chiesette e castelli medievali, enoteche, monumenti romanici e gotici unici al mondo, San Domenico, o la collegiata di San Secondo, grandiosa Cattedrale in cotto. Per non parlare dei borghi virtuosi, dove i suddetti riflessi vi indicheranno panorami molto belli, o anfiteatri romani, mercatini e lumache, reticoli di palazzi e stradine.
Se seguite quei riflessi – che arrivati all’interno della casa circondariale, moltiplicati dallo specchio di Valelapena sono tornati sul territorio- sentire con più intensità i profumi di vino, tartufi e castagne, insomma quei riflessi ti dicono che davanti alla bellezza non si può rimanere soli, e ti viene voglia forte la voglia di chiamare qualcuno caro per dirgli: vieni qui vicino a me?