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Home L'intervista

L’antropologo Fiorenzo Caterini ci racconta il disboscamento sardo

da Antonio Pascale
26/07/2022
in L'intervista
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Cominciamo dal principio, in Sardegna che specie boschive ci sono e qual è il loro stato di salute?

Oggi, secondo le statistiche, in particolare i dati ISTAT, la Sardegna ha il più alto indice di territorio boscoso d’Italia, con un milione e 200 mila ettari. Si tratta, tuttavia, di una classificazione che considera “bosco”, anche la vegetazione degradata e involuta, derivata, in realtà, da un fatto sociale piuttosto negativo, che ha colpito negli ultimi decenni tutta l’Italia e l’Europa, ovvero l’abbandono dell’agricoltura. Grandi distese di macchia diradata sono ricresciute su pascoli e terreni abbandonati. Difatti, il bosco vero e proprio si assesta su un dato comunque confortante, intorno al mezzo milione di ettari, il che dimostra la vocazione boschiva dell’isola e smentisce quel luogo comune, sorto per ragioni culturali, di un’isola arida e senza vocazione boschiva. Si tratta di foresta mediterranea e macchia evoluta, con predominanza di piante sempreverdi, in particolare il leccio, e di altre essenze tipiche dell’area mediterranea. 

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Nelle zone montane più fresche troviamo la roverella, il castagno, il frassino che si affiancano al leccio, e nelle zone più difficili, nelle aree cacuminali e lungo le coste, sono i vari tipi di ginepro a caratterizzare il paesaggio. 

Uno pseudoclimax particolare, in Sardegna, è quello della sughera, una quercia che si difende per sua natura dagli incendi, endemici nelle zone mediterranee, e che ha alimentato la florida industria della lavorazione del sughero, materia prima che si produce dalla sua corteccia. 

Cosa è successo nell’Ottocento in Sardegna, perché è una storia non molto conosciuta?

La Sardegna arriva all’appuntamento con la modernità nell’800, dopo quattro secoli di feudalesimo iberico, che aveva cancellato l’avanguardia politica e sociale degli antichi giudicati sardi. Durante quel periodo, tuttavia, non era venuta meno quell’economia di sussistenza, basata su una gestione comunitaria delle terre, che aveva nel bosco una delle sue componenti fondamentali. Come gli antropologi sanno, le popolazioni tradizionali hanno con il bosco una relazione funzionale, basata sulla consapevolezza diretta: se tagli il bosco, poi ti mancherà la legna per gli attrezzi, per gli infissi, il caminetto, persino per cuocere il pane, oltre alla riserva di alimentazione che il bosco ha per uomini e bestiame; per non parlare della percezione che le popolazioni tradizionali hanno sull’importanza del bosco per l’agricoltura, per l’alimentazione delle fonti idriche e la regimazione delle acque. A questa visione funzionale, le popolazioni tradizionali affiancano una considerazione sacrale e simbolica del bosco, che è un organismo vivo, luogo dove albergano gli spiriti degli antenati e le creature reali e immaginarie dell’inconscio e della fantasia. Ora, però, l’economia di mercato scendeva dall’Europa industrializzata circondando l’isola, recando una visione privatistica, di cui i Savoia, culturalmente inseriti nel contesto europeo, ne erano portatori. Avviarono così la “stagione delle riforme” che però, intervenendo in una società isolana priva di una borghesia in grado di raccogliere la sfida, si trasformò in una mera speculazione. Il preludio al disboscamento fu la nascita delle chiusure con i muretti a secco del famigerato Editto delle Chiudende del 1820. La privatizzazione delle terre, stravolgendo l’antico sistema comunitario, provocò una sequenza di abusi e di ingiustizie, provocando un trauma insanabile nel popolo, al punto che ancora oggi vi sono testi poetici e letterari che ricordano quella vicenda e la rivolta, soppressa nel sangue, che ne conseguì. Successe che i boschi furono prima demanializzati e poi venduti dallo stato piemontese ai privati, spesso speculatori senza scrupoli. Il sistema di sfruttamento dei boschi sardi proseguì ininterrotto fino alla fine del secolo, sotto l’egida del nuovo Stato italiano. Le statistiche sul disboscamento dell’800 sono spietate, concordanti ed inequivocabili. La Sardegna entra nell’800 ricca di boschi, con oltre 500.000 ettari di superficie forestale, e ne esce, alla fine del secolo, ridotta a meno di 100.000 ettari. Ma la distruzione delle foreste sarde deriva solo in parte dal taglio, considerando la capacità di rigenerazione di un ambiente a vocazione boschiva, ma soprattutto dal mutamento della destinazione d’uso dei terreni, ormai per la maggior parte privatizzati. Cambiando l’ecologia, e il regime fondiario dei terreni, l’economia ha trovato forme nuove per sostenersi. Inizialmente è il carbone vegetale a creare una economia “secondaria” di rapina, ricavato dalla macchia che era ricresciuta dal taglio. Infine, è la monocultura ovina a cancellare definitivamente quell’economia di sussistenza che era sì povera, ma variegata. Crolla, in quegli anni, il florido patrimonio suino, che si nutriva del ghiandatico dei boschi. Infatti, le lande desolate disboscate erano vocate al pascolo ovino estensivo, che rispondeva alla richiesta di lavorati del latte che proveniva in particolare dall’emigrazione italiana in America. Nasce così l’epopea del “pecorino romano”, che trova nella Sardegna la quasi totalità della materia prima.

Tornando ai boschi, come si fa a non far bruciare un bosco? Possibile che non abbiamo inventato un sistema di prevenzione?

Un territorio gestito, che sia bosco d’alto fusto, che con molta fatica soccombe alle fiamme, o terreni agricoli, magari irrigati, sono una barriera protettiva nei confronti delle fiamme. Ma è chiaro che ci troviamo di fronte a trasformazioni sociali di lungo periodo che, ancora non si sa come, andrebbero invertite. A questo si aggiungono i cambiamenti climatici, che hanno portato l’intero pianeta a bruciare, e persino, in Occidente e in particolare in Sardegna, la revisione della spesa con conseguente restrizione di servizi pubblici come la protezione civile. Il fenomeno degli incendi, poi, varia troppo da regione a regione: un incendio siberiano, o svedese, o australiano, o californiano ha caratteristiche troppo diverse da un incendio sardo, o francese, o siciliano, o africano. Per cui gli scambi scientifici e di esperienze diverse sono molto interlocutori, nonostante i convegni e gli incontri che pure si fanno. In Sardegna, peraltro, negli anni ’90, il modello regionale antincendio, basato sulla tempestività di avvistamento e intervento (con mezzi piccoli dislocati nel territorio) aveva dato eccellenti risposte. Oggi poi la situazione sembra in peggioramento, a causa delle citate cause: cambiamenti climatici, spopolamento del territorio, revisione della spesa. Mancando la possibilità di spesa, si discute molto di prevenzione: fasce parafuoco, fuoco prescritto, riapertura delle vecchie strade di campagna, pulizia dei terreni incolti. Ma anch’essa, alla fine, ha necessità di risorse non indifferenti. Si discute anche di cultura, di educazione, ma anche qui emergono, spesso, delle narrazioni giornalistiche da “romanzo criminale” che poi non vanno nella direzione di educare il cittadino alla dovuta attenzione. Temo che non vi siano ricette miracolose, per questo problema atavico che accompagna l’uomo da sempre, ma solo un faticoso e costante processo di lotta. L’unica cosa che mi sento di suggerire, prendendo spunto proprio dal modello sardo, è di insistere sull’avvistamento dall’alto e sulla tempestività dell’intervento dal basso. Perché l’incendio ha caratteristiche matematiche esponenziali: un banale focolaio, se trascurato, può trasformarsi in un evento catastrofico che, oltre certi limiti, non può più essere contenuto. Meglio affrontarlo prima.

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