A proposito di fuori suolo, uno poi si chiede: e la terra? Insomma come si fa a coltivare senza terra? Niente paura c’è il fuori suolo. Per la precisione, i sistemi fuori suolo si distinguono in due blocchi: a ciclo aperto e a ciclo chiuso. La differenza?
Partiamo però dalla terra. C’è! Altro non è che un opportuno substrato, contenuto in vasi o in sacchi di polietilene, nei quali viene distribuita della soluzione nutritiva tramite gocciolatori. Il substrato può essere composto da torba (che hanno costo relativamente elevato e rappresentano un materiale esauribile). Fibra di cocco(che invece è un materiale rinnovabile, con ottima capacità di ritenzione idrica). La Posidonia: ovvero i residui spiaggiati della pianta acquatica che possono rappresentare un substrato colturale meglio se compostati. La Perlite, cioè un inerte, sterile, molto leggero. La lana di roccia (leggera, sterile e stabile nel tempo). E la pomice (un substrato sterile di origine vulcanica, stabile, utilizzato per rendere più permeabili all’aria substrati tendenzialmente asfittici ).
Uno dei criteri di classificazione dei sistemi senza suolo si basa sulla possibilità di riutilizzare o meno la soluzione nutritiva. Quindi, quelli a ciclo aperto sono tra i più diffusi perché più semplici da gestire in quanto la soluzione nutritiva non viene recuperata dopo la somministrazione alla coltura..
A proposito di soluzione nutritiva. Per la crescita e la produzione, le piante richiedono 16 elementi minerali. Ebbene, conoscendo la capacità delle piante di assorbire gli ioni minerali secondo noti rapporti funzionali è possibile ottenere una sorta di soluzione nutritiva universale, con un rapporto pari a60:5:35 tra NO3–, H2PO4– e SO42–, rispettivamente, e 35:45:20 tra K+, Ca2+ e Mg2+.
Ovvio che in questi ultimi anni, la sostenibilità ambientale dei sistemi a ciclo aperto è però stata messa in discussione, e dunque si tende a recuperare quanto più possibile. Vedi il caso Olanda dove si va verso il ciclo chiuso ciclo chiuso, quindi si riutilizza la soluzione nutritiva e si rilasciano nell’ambiente minime quantità di reflui.
Uno dice, eh, la modernità. Tuttavia, come accade sempre, le novità si appoggiano su tecniche tradizionali che di volta in volta, nel corso della storia, vengono riprese e integrate. Giusto per contestualizzare, i primi esempi di coltivazione idroponica si ritrovano nei giardini pensili Babilonesi (600 a.C.) e nelle chinampas degli Aztechi, veri e propri orti galleggianti. Poi ci sono stati, a partire dagli anni ’60, molti studi grazie ai quali si è capita meglio la fisiologia dell’assorbimento. In Italia, malgrado l’intensa attività scientifica e il knowhow accumulato, soprattutto in Sardegna, le coltivazioni senza suolo, destinate prevalentemente alla coltivazione del pomodoro, interessano meno del 3% dell’intera superficie orticola.