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Home Forse non tutti sanno che

Una bella storia di innovazione, tratta da Agricoltura femminile singolare (per gentile concessione di maria pacini fazzi editore)

da Redazione
27/12/2022
in Forse non tutti sanno che
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Catherine Langat è una giovane keniota che lavora per Euroseeds, l’associazione dei sementieri europei, con ruolo di manager tecnica per il miglioramento genetico vegetale e la registrazione varietale. Ha una Laurea in Scienza e tecnologia delle sementi a Moi University, Kenya, e un Master in Miglioramento genetico vegetale a UniLaSalle, Francia. Catherine nasce 33 anni fa nel Kenya centrale nella cittadina di Molo, nella contea che prende il nome dalla città di Nakuru, la quarta contea del Paese per dimensioni dopo Nairobi, Mumbasa e Kisumu. In epoca coloniale queste zone erano chiamate white highlands, gli altopiani bianchi, perché erano le zone più fertili. Qui si stabilirono i coloni bianchi perché qualunque raccolto dava ottimi risultati produttivi. Tutt’oggi molte specie agrarie vengono coltivate sui fertili altopiani del Kenya centro-occidentale: mais, frumento, orzo, segale e una ricca varietà di ortaggi. «E con questa introduzione», precisa Catherine, «ti sarà chiaro che provengo da una comunità rurale di agricoltori. I miei genitori sono agricoltori, i miei nonni erano agricoltori, i nostri vicini sono agricoltori.

Una campagna tranquilla: coltiviamo la terra e vendiamo i nostri prodotti. Coltiviamo ciò che mangiamo, alleviamo gli animali che ci danno la carne. È stata un’infanzia interessante» – la definisce così – «ma non sono mancate le sfide». Sono curiosa e le chiedo come i suoi nonni siano entrati in possesso della terra che coltivavano. Il nonno Alexander era l’ultimo di otto figli e viveva più a occidente; era una famiglia numerosa per un piccolo pezzo di terra, troppo piccolo – aveva pensato il giovane Alexander – perché potesse permettere a otto figli di mantenere otto nuove famiglie. Si era reso conto di non poter rimanere lì e si era spostato a Molo con l’intenzione di continuare a fare l’agricoltore, «perché questa era la sua passione», mi dice Catherine, mostrando grande stima per questo nonno visionario ed ambizioso. Lei stessa ha dovuto indagare per ricostruire la storia dell’azienda agricola in cui è cresciuta, perché era ancora piccola quando il nonno è mancato. Si proveniva da anni in cui era andato crescendo il movimento nazionalista di Kenyatta e il Paese tentava un cammino difficile verso l’indipendenza, spesso sfociando in violenze interetniche, tra fughe in avanti nel tentativo di introdurre riforme che aprissero gli organi di governo a rappresentanti locali e repressioni da parte dei coloni britannici. Venne il momento in cui la maggior parte di questi cercarono di uscire in fretta e furia dal Kenya. Accadde che un colono che possedeva più di 300 acri di terra (circa 120 ettari) stava cercando di liberarsene velocemente. Alexander non aveva la cifra sufficiente per l’acquisto, ma si mise d’accordo con un amico di nome Willie e, con i soldi di entrambi e un grosso debito, si rivolsero ad un mediatore per concludere l’affare. «Willie è nostro vicino ancora oggi», conclude Catherine. Osservo che questa storia è una parte importante di ciò che lei è, ciò da cui proviene; l’orgoglio di possedere la terra è un sentimento che riconosco. «Certo», – esclama – «Alexander era un gran lavoratore che produceva cibo

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per la sua famiglia e per la comunità. È tutto cominciato in modo molto bello, pur con tanto duro lavoro. Ma più avanti nella nostra chiacchierata ti racconterò in che condizioni è oggi l’azienda, e questo è forse il motivo per cui io oggi sono a Bruxelles, ciò che mi ha davvero spinta fino a qui». Da agricoltore che conosce l’importanza di certi fattori produttivi la prima associazione mentale che faccio, pensando all’Africa, è “acqua”; così chiedo se ne abbiano a disposizione. Lungo il confine della loro terra scorre un fiume da cui hanno sempre prelevato l’acqua per il fabbisogno loro e degli animali allevati. «Qui a Bruxelles l‘acqua esce dal rubinetto, ma lì non abbiamo niente del genere, il Governo non distribuisce acqua con l’acquedotto». Qualche anno fa, già da laureata, Catherine cominciò a domandarsi se l’acqua del fiume fosse del tutto sicura e se fosse sufficiente bollirla. Così ne parlò con i genitori e decisero infine di attrezzarsi per raccogliere l’acqua piovana e usare quella, che non manca mai perché la zona degli altopiani è molto piovosa. Imparo così che non hanno quasi mai bisogno di irrigare i campi: ci sono due stagioni delle piogge all’anno e sono sufficienti, racconta, per le esigenze dell’agricoltura. Poi, riflettendo, considera che in effetti ultimamente le piogge sono cambiate; non sono più così prevedibili, sono irregolari. «Veniamo a tuo padre», chiedo «lui ha ereditato la terra da nonno Alexander». Tocco un nervo scoperto nella donna. Nellq loro culturq, mi dice, la terra viene divisa fra i figli: «Ho la mia personale opinione su questo. Ho avuto modo di osservare da vicino cosa accade quando dividi la terra. Mio nonno aveva comprato un’azienda piuttosto estesa, la famiglia ci viveva bene, c’era abbastanza terra per fare agricoltura. Ma l’azienda fu poi divisa fra i figli dalla nonna, rimasta vedova». Qui Catherine ride di gusto: la loro cultura, come molte in tante parti del mondo, prevede che la terra venga divisa fra i figli maschi; ma l’anziana, con un guizzo quasi ribelle, decise di lasciare comunque un pezzettino di terra alle cinque figlie femmine e dividere la cospicua porzione rimanente fra i tre figli maschi

(Deborah Piovan, Agricoltura femminile singolare. Donne che coltivano il futuro.  Maria Pacini Fazzi editore)

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