Negli anni ho partecipato a diversi convegni di maiscoltori. Non facevano altro che lamentarsi dell’eccessiva presenza di un lepidottero, la piralide del mais. A volte era capace di devastare il raccolto. Danni per milioni di euro. Per risolvere la questione, alcuni ricercatori si battevamo per sperimentare l’uso del Bacillus Thuringiensis (Bt), un batterio che al momento della sporulazione produce tossine, che risultano letali per la piralide. Il bello di questo batterio è che risulta specifico per gli insetti. Nella maggior parte degli animali, infatti, l’ambiente intestinale è acido, cioè presenta valori di PH molto bassi, al contrario quello delle larve degli insetti è altamente alcalino. Solo in questo particolare ambiente che viene attivata la tossina Bt. Questo batterio messo in campo avrebbe potuto contrastare efficacemente la piralide. Una pratica di lotta biologica integrata, così si chiama in gergo (quando cioè si prevede di limitare l’uso della chimica con la presenza di insetti utili che predano altri insetti dannosi alle piante), che veniva consigliata anche dalla pioniera dell’ecologia, Rachel Carson. Però i produttori di mais pensavano (e alcuni avevano anche fatto la prova), che questa pratica di lotta biologica integrata fosse faticosa, dispendiosa e a volte poco efficace. In realtà, forse, era solo dispendiosa: bisognava prima preparare delle trappole per la piralide, così da definire, contando le larve a campione, quanti adulti avrebbero potuto infestare il campo. Dopo di che, si doveva introdurre una certa quantità del batterio Bt, proporzionale alle larve di piralide attese.
Ma c’era poi un altro problema, non secondario, le spore di Bt sparse a caso avrebbero creato problemi anche a quegli insetti che non predano il mais. Dunque, per quanto riguarda il mantenimento della biodiversità, il batterio (biologico) presentava qualche inconveniente. Dunque che fare per semplificare la questione Bt, rendere cioè questa pratica ecologica, pratica e economica? Provare con l’ingegneria genetica. Trasferire quel segmento di DNA Bt (poche basi) che producono le spore alla pianta stessa di Mais. Una volta che quel segmento sarà introiettato nel codice genetico del mais, la pianta produrrà le spore che faranno piazza pulita della piralide. In questo modo anche la mira verrebbe a essere più precisa, solo quegli insetti che predano il mais si troverebbero a ingerire le spore Bt. Le prime sperimentazioni in laboratorio davano buone speranze (le tossine non danno assolutamente nessun problema all’uomo).
Il Bt Mais venne (e tuttora viene) prodotto e commercializzato dall’azienda svizzera Novartis. In breve tempo il prodotto conquista il mercato americano e una discreta fetta di quello europeo. Tutto sembrava andare per il meglio, quando, all’improvviso, il 20 maggio del 1999, scoppia il caso mais Bt e succede il finimondo: la rivista Nature pubblicò una breve corrispondenza del giovane entomologo Losey. Il succo della questione era questo: il polline Bt Mais si deposita su alcune piante spontanee che crescono nelle vicinanze delle colture di mais; il polline può essere ingerito da insetti che normalmente si nutrono di queste piante, come le farfalle monarche; le larve una volta ingerito il polline presentano problemi di crescita e un alto numero di soggetti muore. Se ne deduce che il polline del mais Bt può essere fatale ad alcuni insetti, peggio che buttare un antiparassitario di classe A. È il maggio del 1999, siamo a pochi mesi dal nuovo millennio. Le associazioni ambientaliste cominciano a darci dentro con la storia del 2000 non più 2000, l’apocalisse prossima ventura e via dicendo. Stampano volantini con l’icona delle farfalle monarca e la scritta: la prossima specie a rischio di estinzione? L’esperimento di Losey e soci era semplice. Avevano cosparso alcune foglie abitualmente mangiate dalle larve di farfalla Monarca (Asclepiacee) sia di polline Bt sia di mais convenzionale. Avevano poi tenuto cinque giorni le farfalle chiuse in una scatola. Al quarto giorno quelle nutrite con polline convenzionale erano tutte vive, quelle, invece, nutrite solo con polline transgenico presentavano un tasso di mortalità del 44%. Le altre risultavano vive ma sottopeso. Questo esperimento secondo Losey testimoniava il fatto che la sopravvivenza della specie delle farfalle monarca era in serio pericolo. Perché le larve si nutrono esclusivamente di Asclepiacee, queste piante a loro volta, crescono in prossimità delle piantagioni di mais, il mais, inoltre, rilascia il suo polline per 8-10 giorni, a seconda della specie, da fine giugno a metà agosto, proprio quando le monarca di nutrono. Questo esperimento venne preso a modello dalle associazioni ambientaliste. I volenterosi ragazzi di Greenpeace ripiegano i risultati di Losey nelle loro cartelline verde e cercano di informare i passanti del pericolo che il Bt mais sta facendo correre alle farfalle. Quelli di Greenpeace non erano isolati, la stampa inglese e americana cominciò con il titolare “Il mais di Frankestain è fatale per le farfalle monarca” (Evening Mail), oppure “una pianta geneticamente modificata può causare una strage (Record). Succede il finimondo.
Le azioni della Monsanto (produttrice della varietà transgenica sul mercato americano) scesero del 10%. La Commissione europea bloccò la registrazione del Bt Mais e continuando così, sull’onda dell’emotività, si restrinse tutto quello che era possibile restringere in materia di biotecnologia. Dopo qualche settimana, passata l’emozione, si cominciò con più attenzione a valutare l’esperimento di Losey.
Le riviste scientifiche hanno vari gradi di giudizio, che vanno dal primo grado, cioè l’esposizione semplice dei propri lavori alla successiva accurata indagine dell’intera comunità scientifica per validare l’esperimento presentato. Il lavoro di Losey, ripreso con grande eco dalla stampa era un lavoro preliminare.
C’era un primo dato strano: effettivamente la popolazione delle farfalle monarca era da tanti anni considerata in serio declino, ma guarda caso, proprio quando il Bt Mais aveva raggiunto negli Stati Uniti una superficie pari a 9 milioni di ettari, la popolazione di farfalle aveva cominciato a mostrare segni di ripresa. Quella generazione coinvolta nelle migrazioni autunnali era passata dai 300 ai 500 milioni di esemplari.
Man mano che si esaminavano i dati sorgevano delle incongruenze.
La procedura scientifica ha questo di bello: bisogna dimostrare a tutti e con l’aiuto di tutti la perfetta aderenza tra parole e fatti, tra dati e conclusioni.
E dunque, una prima critica fu: Losey non ha misurato la concentrazione del polline sulle foglie, si è limitato a stenderlo a occhio con una spatola, in modo che la sua densità risultasse simile a quella del polline presente sulle foglie di asclepiacce presenti in campo. Oppure, non viene riportato alcun studio sulla diluizione, perciò non sappiamo se il polline a concentrazione minori (quelle che si registrano pieno campo) abbia davvero un effetto sulle larve.
Il fantasma del buon vecchio Paracelso comincia ad aleggiare: è la dose che fa il veleno. Antony Shelton, famoso entomologo, con un comunicato stampa (Cornell University) dichiara: “se andassi al cinema e comprassi 50 chili di popcorn e li mangiassi tutti in una volta, probabilmente morirei e qualcuno potrebbe affermare che i pop corn sono letali per la specie umana.”
Ancora, Michael Frumento, un giornalista scientifico (Wall Street Journal), specialista nel castigare la scienza spazzatura: i numerosi entomologi che ho intervistato sostengono che le condizioni di laboratorio di Losey sono così artificiose da avere ben poco in comune con quelle in campo aperto. I ricercatori hanno ricoperto le foglie con il polline Bt mais e dunque le larve ho mangiavano quelle foglie o morivano. Invece in condizioni normali le larve che si imbrattano di polline Bt Mais o meno, le lasciano perdere e cercano fogli pulite.
Via via la discussione sull’esperimento di Losey si fa più serrata e tecnica, in molti, per esempio, si concentrano, per esempio, su una falla nell’esperimento di Losey: il ricercatore non ha usato come controllo un ibrido di mais imparentato con il Bt. È importante, infatti, capire se è la specie stessa (anche quella convenzionale) a essere tossica per le farfalle.
Infine dopo una bocciatura congiunta e all’unisono per alzata di mani di alcuni scienziati riuniti a Roma per un convegno (meeting dell’European Plant Biotecnology network phytosphere) lo stesso Losey è costretto a fare marcia indietro. Dichiara nell’ordine a) è vero, non ha usato un ibrido imparentato con quello geneticamente modificato come controllo perché non l’avevo a portata di mano, b) non ho adottato metodi di misura rigorosamente quantitativi e infine c) non dispongo di dati certi per dichiarare che il Bt Mais possa essere letale per le farfalle monarca.
C’è da chiedersi come mai la prestigiosa rivista Nature abbia accettato di pubblicare un lavoro, quello di Losey, che era solo in stadio preliminare. L’estensione di questa pratica per le riviste scientifiche autorevoli può risultare inquietante perché si finisce per non credere più all’autorevolezza scientifica, non si potrà dire: l‘ha detto Nature!
Nature pubblicò, tra l’altro, uno studio (bufala) di Jaquest Benveniste sulla memoria dell’acqua. Il ricercatore che voleva provare l’efficacia delle cure omeopatiche, sosteneva che i principi attivi non vengono annullati da una diluizione tanto estrema da far risultare la loro concentrazione nulla, perché l’acqua possiede la straordinaria (magica) capacità di conservare la memoria dei propri soluti. Questo lavoro, citatissimo come esempio di scienza spazzatura, valse al suo autore Ig-nobel, anti nobel che viene annualmente assegnato per la ricerca più incredibile e spassosa. Fatto sta che il ritorno commerciale e pubblicitario della pubblicazione della memoria dell’acqua, sia stato così forte da passare sopra alle critiche che la comunità scientifica ha rivolto alla rivista stessa.
Riassumendo: insistere nel far credere che le piante prodotte con la tecnica del DNA ricombinate siano pericolose e mostruose, significa ricattare emotivamente le persone con la retorica dell’apocalisse, dunque estorcere le emozioni. I buoni narratori e i bravi scienziati lo sanno, le emozioni vanno conquistate.
Invece, in questo clima di tensione emotiva alta, gli organismi governativi, spesso non competenti in materie specifiche, impongono procedure di controllo straordinarie e disciplinari di produzioni molto costosi. Oggi, le piante ottenute con tecnica del DNA ricombinante sotto controllatissime e spesso al di là di ogni ragionevole motivo.
In fondo, è veramente un problema metodologico. Si insiste a rappresentare le piante ottenute da DNA ricombinate, come frutto di una perversa procedura. Sarebbe invece il caso di considerare non il metodo di produzione ma il prodotto ottenuto. In questo modo l’accento passa non alle buone o cattive intenzioni, ma ai risultati. Con le tecniche di controllo attuali, si potrebbe scoprire che una pianta ottenuta con metodologia tradizionale (che noi per abitudine o per ignoranza consideriamo naturale e quindi sana) risulti allergenica. E scoprire che è una di quelle piante che da anni abbiamo introdotto nella nostra alimentazione. O anche, al contrario, che una pianta ottenuta con DNA ricombinate, presenti problemi di tossicità. Ancora una volta è la valutazione caso per caso che fonda la differenza tra un sistema di pensiero moderno e scientifico e uno arcaico e mitologico.
La verità? Mettere in campo un OGM costa molto, proprio per via dei costosissimi e inutili controlli. Non è dunque un paradosso che alcune multinazionali del settore abbiano dato conto agli allarmi delle associazioni ambientaliste. Un’economista della Clemson University, Bruce Yahdle, ha coniato un singolare teorema “dei contrabbandieri e dei battisti. Nel sud degli Stati Uniti, le regole della domenica sera vietano la vendita dell’alcool, appunto, di domenica.
Queste leggi sono sostenute da un’involontaria coalizione battisti e contrabbandieri. I primi sono contrari al consumo dei liquori durante la domenica e i secondi sostengono questa regola, così che possano, di domenica, vendere sotto banco, a prezzo alto, i liquori.
Così è per il biotech, si invocano reti di protezioni altissime e immotivate, cioè, tradotto, si predispongono dei severissimi e costosissimi disciplinari che solo alcune multinazionali possono sostenere. Infatti, ormai, una multinazionale opera in regime di monopolio.
In conseguenza di ciò se dei ricercatori di Portici, di Bologna, di Viterbo ecc., volessero mettere a punto una pianta attraverso il DNA ricombinante che sia di pubblica utilità, non potrebbero portarla sul mercato, perché non riuscirebbero (vista anche lo stato della ricerca pubblica in Italia) a sostenere i costi.
(la migliore ricostruzione del caso OGM è contenuta nell’imperdibile libro di Anna Meldolesi, Ogm, storia di un dibattito truccato, Einaudi, 2001)